Ricordare perché non accada mai più. 

Questo il senso della «Giornata della memoria», un evento che si celebra contemporaneamente in gran parte del mondo occidentale per commemorare le vittime dei campi di concentramento nazisti. 

Il 27 gennaio è una data altamente simbolica: nel 1945, infatti, le avanguardie delle truppe sovietiche raggiunsero il campo di concentramento di Auschwitz, in Polonia. 

Per la prima volta, l’orrore della «soluzione finale» escogitata da Hitler e dai suoi gerarchi per liberarsi, una volta per tutte, della «questione ebraica», apparve nella sua cruda realtà, tanto violenta da apparire irreale.

Ad Auschwitz trovarono la morte, uccisi nelle camere a gas o dagli stenti, milioni di uomini, donne, bambini, quasi tutti ebrei. 

Ma furono sterminati anche zingari, omosessuali, testimoni di Geova, oppositori politici e altri «nemici» del Reich millenario. 

Il 27 gennaio, però, non finiva il terrore per i prigionieri del lager: iniziava, al di là di quel filo spinato, la difficile marcia della morte durata per mesi, al freddo, nella neve, senza nessun aiuto esterno. 

Ognuno doveva farcela da solo, una gamba avanti all’altra. 

Chi si fermava era perduto e non si poteva appoggiare al compagno vicino che si trascinava con i piedi piagati e che veniva finito dalla scorta se fosse caduto.

La straordinaria forza della vita in quel momento poteva compiere miracoli, poteva aiutare a lottare.

La memoria, oltre che un monito per tutta l’umanità contro l’odio razziale, etnico e religioso, è un dovere verso le giovani generazioni, alle quali si devono trasmettere la consapevolezza e la conoscenza del passato, perché non siano private di quel patrimonio morale che è rappresentato dalla continuità della storia dell’uomo. Soprattutto perché capiscano che la dignità umana è inviolabile, che ogni nuovo giorno è un dono meraviglioso, che avere una casa, una famiglia e la libertà di scelta non è poi così scontato. 

Spetta alla famiglia, alla scuola, alle istituzioni trasmettere il ricordo fino al profondo dell’animo e coltivare nei giovani il rispetto di ogni essere umano.  

Alla scuola secondaria di primo grado di Orzinuovi il tema dell’Olocausto è stato trattato in modo approfondito dalle classi terze: in 3A, dapprima attraverso la lettura di brani di Primo Levi e Anna Frank, ma anche tramite l’analisi del fumetto “Maus” in cui il rapporto tra tedeschi ed ebrei è rappresentato dall’efficace metafora del gatto contro il topo in trappola. 

In un secondo momento è stata stimolata una discussione attraverso domande guida inerenti a video significativi che riguardavano le testimonianze e i racconti di sopravvissuti, come Renzo Modiano, Nedo Fiano e Liliana Segre.

Le classi si sono soffermate proprio sul discorso tenuto dalla senatrice davanti al Parlamento di Bruxelles il 20 gennaio 2020, che lascia un messaggio importante alle future generazioni, basato su un forte attaccamento alla vita, nonostante la sofferenza e i momenti difficili che ognuno si trova ad affrontare. 

La Segre, deportata ad Auschwitz insieme al padre dal binario 21 della stazione centrale di Milano ha provato la durezza del lager, la paura di non farcela, l’indifferenza, il desiderio di lottare e tornare ad una vita “normale”, che non sarebbe comunque più stata la stessa. 

Per anni ha convissuto con i suoi terribili ricordi senza riuscire a raccontarli, ma, dopo che è diventata nonna, ha deciso che era una necessità morale parlare alle future generazioni, per renderle consapevoli che bisogna combattere il razzismo e il male che si annida nel cuore dell’uomo. 

Chi ha provato la miseria e il dolore trova la felicità nelle piccole cose, anche in una semplice carota che Liliana aveva ricevuto in dono da una compagna di prigionia come gesto d’affetto, poiché l’aveva vista sofferente dopo un’operazione senza anestesia. 

Per lei la felicità era una piccola carota, introvabile nel freddo inverno polacco.

«Anche oggi fatico a ricordare – proclama la Segre nel suo discorso davanti ai rappresentanti di tutte le nazioni europee – ma penso sia un grande dovere accettare questo invito per ricordare il male altrui. 

Che la farfalla gialla voli sempre sopra i fili spinati. Questo è un semplicissimo messaggio da nonna che vorrei lasciare ai miei futuri nipoti ideali. Che siano in grado di fare la scelta. 

E con la loro responsabilità e la loro coscienza, essere sempre quella farfalla gialla che vola sopra ai fili spinati». 

Così la farfalla disegnata dalla bambina di Terezin, città vicina a Praga diventata ghetto durante la seconda guerra mondiale, è ora il simbolo della rinascita. 

Ispirandosi a questa immagine e alle parole della Segre gli alunni, guidati dalla docente di Lettere, hanno ricreato in classe un filo spinato di metallo, su cui hanno appoggiato delle farfalle colorate portatrici di un messaggio personale su questa grande tragedia umana, ma anche segno di libertà e speranza, di memoria che proprio i giovani devono portare con sé perché ciò che è accaduto non si debba più ripetere. 

Perché quel rigido filo spinato d’indifferenza sia superato una volta per tutte.

Nicoletta Galli