Nadia Pedrini, rovatese e scrittrice esordiente, ha pubblicato, nelle edizioni 2016-2017-2018-2019-2020, alcuni racconti con il concorso “Oceano di carta” promosso da Sensoinverso Edizioni ed un romanzo nel 2017, “L’anima del Waratah”, pubblicato da Arduino Sacco Editore.

Oggi torna nelle librerie per parlare di emigrazione italiana, “è un tema – afferma l’autrice – che ho già toccato col mio precedente romanzo. Allora come meta aveva l’Australia, questa volta l’America. E’ un argomento che sento molto mio, in quanto sono sempre stata incuriosita dai racconti di alcuni parenti emigrati in Australia nel secondo dopoguerra, dalle difficoltà da loro riscontrate e dai sentimenti contrastanti che contraddistinguono chi decide, spesso per necessità, di lasciare le proprie certezze e le proprie radici per un viaggio verso un nuovo inizio, verso l’ignoto con in mano solamente una valigia carica di speranze”.

Ricordiamo che l’emigrazione italiana è stato un fenomeno emigratorio su larga scala finalizzato all’espatrio che ha interessato la popolazione italiana, che ha riguardato dapprima l’Italia settentrionale e poi, dopo il 1880, anche il Mezzogiorno d’Italia. Sono stati tre i periodi durante i quali l’Italia ha conosciuto un cospicuo fenomeno emigratorio destinato all’espatrio. Il primo periodo, conosciuto come Grande Emigrazione, ha avuto inizio nel 1861 dopo l’Unità d’Italia ed è terminato negli anni venti del XX secolo con l’ascesa del fascismo. Il secondo periodo di forte emigrazione all’estero, conosciuto come Migrazione Europea, è avvenuto tra la fine della seconda guerra mondiale (1945) e gli anni settanta del XX secolo. Tra il 1861 e il 1985 hanno lasciato il Paese, senza farvi più ritorno, circa 18.725.000 italiani. Una terza ondata emigratoria destinata all’espatrio, che è cominciata all’inizio del XXI secolo e che è conosciuta come Nuova Emigrazione, è causata dalle difficoltà che hanno avuto origine nella grande recessione, crisi economica mondiale che è iniziata nel 2007. Questo terzo fenomeno emigratorio, che ha una consistenza numerica inferiore rispetto ai due precedenti, interessa principalmente i giovani, spesso laureati, tant’è che viene definito come una “fuga di cervelli”. Secondo l’anagrafe degli italiani residenti all’estero (AIRE), il numero di cittadini italiani che risiedono fuori dall’Italia è passato dai 3.106.251 del 2006 ai 4.973.942 del 2017, con un incremento pari al 60,1%.

Tornando al libro di Nadia Pedrini, la storia si concentra su Alan, giovane avvocato di New York che trova –  alla morte del padre – un baule appartenuto al nonno Vittorio, emigrato da Boves in America all’inizio del 1900. Decide così di intraprendere un viaggio in Italia alla scoperta delle proprie origini. Il libro narra, tramite il diario di Vittorio, il periglioso viaggio dal Piemonte fino in Minnesota, terra dei laghi, chiamata dagli indiani Sioux Mnisota, ossia terra dove l’acqua riflette il cielo.

Luigi Pellegrino -ex sindaco di Boves e Professore – che ha curato la prefazione del volume afferma: “sfogliare questo libro è come bere un buon calice di vino delle colline cuneesi e langarole.  Un bicchiere ne tira un altro, ogni pagina guida gli occhi a continuare” anche perché è storia viva, storia che si fa racconto di vite vissute e di ricordi indelebili. “A inizio Novecento – continua Pellegrino –  come Vittorio, il nonno del protagonista Alan, così molti bovesani lasciavano il paese per emigrare verso la vicina Francia o la lontana America. Dagli ultimi decenni dell’Ottocento e fino agli anni Cinquanta del Novecento, l’emigrazione aveva questo doppio volto: definitiva oltre oceano verso “la Merica” con destinazione gli Stati Uniti come artigiani e soprattutto l’Argentina, territorio più adatto ad accogliere chi sapeva coltivare e lavorare la terra; stagionale ogni anno, con punte di sette/ottocento persone, verso la francese Costa Azzurra, da Menton a Marsiglia in particolare, compreso l’entroterra.  Qui gli uomini lavoravano come muratori, contadini, artigiani, panettieri; operavano nelle costruzioni di edifici o di opere pubbliche; coltivavano la terra, curavano gli orti dalla semina al raccolto, vendemmiavano, raccoglievano i fiori per i profumi. Aiutavano gli artigiani come fabbri, falegnami, carradori, decoratori, idraulici, carpentieri, ecc.; diventavano panettieri o salumieri o venditori di latte e formaggi, verduriere. La gran parte rientrava a casa con un gruzzoletto; per alcuni mesi una bocca in meno da sfamare. Non erano pochi coloro che invece si fermavano (specie panettieri, lattai, artigiani, macellai, norcini, ortolani.) e si facevano una famiglia, generalmente con donne della propria terra. Le ragazze, con scarse leggi sociali che le tutelassero e le proteggessero da maltrattamenti e soprusi, diventavano donne di casa, baby sitter, dame di compagnia (le più fortunate), raccoglitrici di frutta, verdura, fiori, aiutanti nei lavori dell’orto e della campagna in generale. A loro erano affidati sempre i compiti più pesanti e faticosi; il denaro raggranellato serviva per la famiglia di origine, generalmente assai numerosa o per preparare il corredo da sposa. In effetti sui quasi diecimila abitanti di inizio Novecento, le donne erano in maggioranza e si occupavano della casa e della famiglia, spesso con dieci figli sovente decimati nella prima infanzia da malattie o malnutrizione, allevavano bachi da seta, lavoravano nelle dieci filande e cotonifici bovesani e nelle fornaci per laterizi; filavano la lana e con telai a mano trasformavano la canapa in stoffa detta “tela di casa” per vari usi. L’emigrazione era quindi normale e toccava quasi ogni famiglia”.

Mauro Ferrari