La marcita (o marsèntâ in dialetto) era una particolare tecnica di prato stabile irriguo diffuso nella pianura padana e sistemato in modo tale da consentire la crescita dell’erba anche durante i mesi invernali. Si sviluppò soprattutto nella bassa Lombardia occidentale, dove nel XIII sec. era già molto diffusa e nell’ovest bresciano ebbe un vero exploit nel corso del ‘700, sulla linea delle risorgive.

Il sistema prevedeva che un sottile velo d’acqua di fontanile, con temperatura compresa tra i 9° e i 15°, scorresse con continuità sull’intera superficie del prato, dal tardo autunno fino alla primavera, cedendo al terreno il suo carico termico e impedendo così che il gelo inibisse la crescita dell’erba. Inoltre, la presenza stessa dell’acqua che aveva differenza termica con l’aria fredda della stagione, favoriva il formarsi di una foschia di condensa che a sua volta schermava il terreno dal gelo (l’acqua pura come nelle goccioline di vapore è un isolante, contrariamente a quanto si crede). Lo stesso effetto si osserva su canali e fiumi, che durante l’inverno presentano sempre una sorta di nebbia sui loro corsi. Questo principio era conosciuto anche dagli Incas, che grazie alla foschia generata da canaletti coltivavano patate sulle Ande fino a 5.000 metri di quota.

Con la marcita, per raggiungere i massimi risultati, ogni riquadro del prato sistemato a marcita veniva percorso da diversi canali alimentatori e di scolo, mentre la superficie dei campi risultava sagomata come le falde di un tetto al cui colmo era posto un vaso alimentatore a fondo cieco. Da questo traboccava l’acqua lateralmente, finendo poi negli scoli che allontanavano l’acqua raffreddata in canali emissari. Durante il resto dell’anno la marcita veniva gestita come un qualsiasi prato irriguo.

Questa tecnica permetteva di fare fino a sette tagli di fieno l’anno. Il 1° taglio del foraggio veniva effettuato a fine febbraio/inizio marzo; il 2° intorno a metà aprile; il 3° taglio di fine maggio, detto maggengo, consisteva nel 25% circa della produzione annua. Seguivano il 4° taglio, l’agostano a fine luglio, il 5° (detto terzuolo) a fine agosto, il 6° tra fine settembre e inizio ottobre e l’ultimo tra novembre e dicembre.

Tutto ciò contribuì a rendere la pianura Padana una terra che produceva mediamente più foraggio della media europea, parimenti alla produzione di latte che quindi fu alla base della ricca fioritura dell’attività casearia lombarda nel medioevo. Perciò la marcita è alla base del successo di numerosi formaggi italiani che ancora oggi contribuiscono al buon nome dei nostri paesi (e Rovato fu uno dei principali centri di stagionatura del formaggio del nord-Italia).

Con il ‘700, l’affinamento di questa tecnica e l’introduzione massiccia della coltura del mais, resero non più necessarie le transumanze di bestiame dalla pianura alla montagna. Il bestiame poteva essere gestito in loco, rendendo più economico l’allevamento e favorendo così lo sviluppo di stalle e fienili più ampi. Ecco perché la maggior parte di queste strutture, anche nel bresciano, sono state edificate in quel secolo. Perciò possiamo dire che la marcita ha anche favorito l’evoluzione urbanistica dei nostri villaggi.

Altri indirizzi colturali e il sistema agricolo attuale hanno determinato l’abbandono di questa tecnica. Le rarissime marcite sopravvissute devono essere considerate dei veri e propri “monumenti” dell’agricoltura padana e, almeno nel milanese, in alcuni casi sono tutelate in parchi appositi. Da noi, l’abbandono di questa tecnica stava provocando lo smottamento e la perdita di numerosi fontanili, che in parte sono stati recuperati. In questo processo lesionistico rientrano anche coloro che vorrebbero cementare il fondo delle nostre seriole. La Fusia, la Nuova, la Castrina e la Trenzana, per citare quelle che scorrono prossime alle nostre case, fungono da principali alimentatori di tutti i fontanili della bassa occidentale (da Trenzano in giù), proprio grazie alla dispersione di acqua che dal loro fondale alimenta la prima falda. Guai a pensare che un’azione del genere non possa provocare danni seri agli equilibri che i nostri avi hanno creato in secoli di fatiche.

Alberto Fossadri