Le prime “visite”, del tutto inaspettate a Rovato, cominciarono nell’estate del 1944. Cacciabombardieri americani monomotori in stragrande maggioranza del tipo P-47D Thunderbolt: due bombe sotto le ali, spezzoni e due mitragliatrici.

Ricordo nitidamente la prima quando arrivarono in sei. Qualche giro sulla nostra località e a seguire i boati delle bombe esplose; a seguire rosari infiniti di TA TA TA TA TA delle mitragliatrici.

Tutto accadeva presso la stazione ferroviaria; presi di mira le linee, i raccordi e l’edificio del silos.

Non più di una mezz’oretta di convulsioni con virate, picchiate e cabrate in cielo, fumi dove avevano colpito.

Quella mattina verso le 9.00 stavo all’inizio della via monte Orfano, appena dentro il pendio della proprietà Cantù. 

Non so descrivere lo spavento, ero terrorizzato, scattavo sul retro dei due pini, ancor oggi da vedersi, a seconda della posizione degli aerei che, dopo ogni picchiata e mitragliata, giravano e cabravano verso Santo Stefano e la collina per ritornare a “grattare” dove avevano iniziato. Salivano con meno velocità su su in alto e poi giù giù in picchiata verso i bersagli individuati.

Io, povero tapino che, a torto o a ragione, pensavo mi avessero individuato quale scriteriato curiosone degno, pertanto, di una raffica!

Poi lo stormo scomparve nella luce del sole.

Solo allora abbandonai gli alberi dove stavo acquattato. Dopo questa “primizia”, il tempo ci abituò alle scorrerie di aerei che durarono fino alla fine di aprile del 1945: per 14 mesi scali e raccordi ferroviari di Rovato furono sotto attacco aereo per ben 174 volte; pochi in altre località. 

Da parte mia niente pressapochismo: trascrivo quanto l’allora capo stazione di Rovato signor Oreste Sacchetti ebbe a consegnare a monsignor Zenucchini: “…tanto per norma dirò che la nostra stazione subì 87 giornate di bombardamenti e altrettante di mitragliamento e tutto questo senza registrare morti” (meminisse iuvabit). 

Invece azzardo a scrivere, ma non tanto, che nessun’altra località di provincia subì simil stillicidio. Se si detraggono le giornate con nebbia, pioggia, neve e di domenica (mai si sono visti in tale giorno festivo) viene facile capire che quasi ogni giorno li avevamo tra… le teste. 

Arrivavano quasi sempre verso le 9 dopo aver decollato, per un periodo da Grosseto, poi da Pisa. “PIPPO” l’inglese, il suo dovere l’aveva adempiuto la notte fino a poche ore prima.

Adesso era sorto il sole a illuminare, toccava agli americani loro alleati.

Se l’obiettivo principale prestabilito era Rovato, il “privilegio” delle bombe era per noi, se scaricate prima altrove, ai rovatesi non rimanevano che le mitragliate per 30/45 minuti. Piloti acrobati, cavalieri del cielo, funamboli, lassù in cielo disegnavano il meglio della bravura; a terra danni e un morto il 22 aprile del 1945: Piva Alcide, 22 anni, tornava dai campi su un carretto carico di fieno in via Battisti diretto a casa in via Marchesi; era sdraiato sul carico quando i piloti di quattro aerei lo presero a bersaglio invero molto facile. A turno su e giù, a destra e a manca, cabrate, picchiate: 5-6 minuti di delinquenza omicida. Poi del giovanotto si lesse sugli annunci murali mortuari ciò che di lui già si conosceva: “…anima buona, onesta, lavoratore” e quel poc’altro a continuare. Esecrazione, rabbia e dolore in tutti i rovatesi.

Disperazione per mamma Elisabetta e papà Giuseppe. Del cavallo rimasero le carni vendute a bassa macelleria. Isolato caso di crudeltà gratuita da parte di qualche pilota?

Certamente sì; però nel caso specifico raccontato, io non lo definisco atto di guerra come nelle documentazioni ufficiali militari, ma vile assassinio e lo dimostro continuando.

Gli stessi “bravi”, naturalmente senza spegnere i motori, 4 minuti dopo erano ancora a caccia volando in periferia di Chiari, zona via Pedersoli-via Lumetti; sotto di loro che vedevano?

Tre uomini (i miei zii paterni) che lavoravano su un campo con aratro trainato da due buoi.

A lato della strada due vacche legate a un carro agricolo. Poveracce, le vacche! Furono le vittime dei maldestri lugubri becchini del cielo. Sempre loro!

Le tre persone: Michele, Virgilio e Pietro, ebbero salva la vita perché ad ogni virata degli aerei trovarono scampo facendosi scudo con grossi alberi di gelso. Essì, perché ancora provarci e riprovarci soprattutto sui bovi che, benché grossi come erano, non sono mai stati centrati.

Cavalieri del cielo quelli?  Macchè! Cowboy da strapazzo con licenza di uccidere!

Probabilmente quei festaioli dell’aria non avranno conosciuto a quei tempi le dolcissime odi dedicate da Giosuè Carducci al mite, paziente animale: “…t’amo pio bove…l’agil opra de l’uom gravi secondi”.

Lo zio Pietro è ancora in vita, nonagenario vetusto, mente lucidissima.

Parlo con lui, gli ricordo quanto accade 74 anni or sono; mi risponde: «Mi tremano ancora le gambe». Vi assicuro io, nessun eufemismo, perché è ancora forte come una quercia.

Ho sconfinato in quel di Chiari per descrizione di continuità su malefatta iniziata da noi a Rovato.

Ora rientro a Rovato per ricordare fatti eclatanti come lo scoppio spaventoso del Segabiello, il 17 novembre del 1944; episodio più volte descritto negli annali, nonché ciò che NON accade 4 giorni dopo allor quando non vi fu catastrofe.

All’uopo i rovatesi lo ritennero miracolo, incoronando la Madonna di Santo Stefano nel 1948. Ma non solo i cacciabombardieri volavano su di noi; di questi non ci davano più preavvisi neanche alla radio, tanto erano scontate le “visite”.

L’ente radiofonico informava quando i nemici erano di tutt’altro calibro e di numero. In quei casi venivano sospesi i soliti programmi di musica e di canzoni all’improvviso sostituite da una forte voce maschile: «Actung! Actung! Actung! Luftwaffe feinde…bla…bla…bla, hùndertfunfzig kilometer mailand. Ende der mitteilu». 

A seguire ripeteva in lingua italiana. In sostanza informavano dell’avvistamento di squadriglie di bombardieri pesanti, tenendo come riferimento Milano a 150 km. Finita l’informazione, ricominciavano le musiche le canzonette tra le quali quella tedesca tanto amata dalle truppe germaniche: “Lili Marlen, tutte quelle sere sotto quel fanal presso la caserma ti stavo ad aspettar…”. Alle musichette, come contraltare e a contrastare, la sirena dell’allarme posta sulla torre civica: “Fiuuu… fiuuu…”, ma senza più accapponare la pelle; era consuetudine giornaliera, oramai.

E poi li sentivi arrivare: se chiudevi gli occhi ancor prima di vederli pareva di percepire il cupo rumore delle onde del mare; tale effetto perché volavano disposti in lunghe file orizzontali distanziate in profondità l’una dall’altra. Ed erano tanti, ma proprio tanti, diretti a nord: Germania, Austria e chissà dove. Volavano lenti anche perché “rimpinzati” di bombe, altre armi di caduta, mitragliatrici, persone di bordo e forse ancora altro. Altezza di crociera 6-7000 m e forse ancor di più.

Erano le famose “fortezze volanti”.

E quando il cielo era azzurro e il sole sorto, lassù quasi nell’infinito, luccicavano come tante monete d’oro e d’argento; centinaia di velivoli dei quali non vedevi la classica forma, ma altrettante lunghe code bianche che si formavano per effetto della condensazione.

E quando l’astro non ero del tutto sorto, oppure era calante, sempre lassù con come tante piccole cose scure,  sembravano girini da stagno o piattole.

A quote più basse, ma non di tanto, cacciabombardieri di scorta che davano l’impressione di soffrire la velocità contenuta dei fratelli maggiori e li vedevi allora, come libellule, schizzare in punti diversi e poi rientrare ordinatamente nelle file. Così stando le situazioni in quei periodi di giornata, ebbene il sole sembrava un po’ oscurarsi.

Decollavano dalla Puglia e da Villacidro in Sardegna, come nel febbraio 1945: 1078 aerei, 747 bombardieri pesanti, 331 caccia per attaccare 8 stazioni diverse nel nord Italia.

E noi, piedi per terra, guardare lassù verso l’infinito simil movimento da rimanere estasiati con la bocca aperta: la pietà arrivava dopo considerazioni inverosimili stante l’ignoranza in materie specifiche allora del tutto sconosciute. In tali flotte aeree non potevano mancare i bimotori classificati in bombardieri leggeri per formare “la trinità”: monomotori, bimotori, quadrimotori, tutti a far rima. 

A parte “Pippo”, il rapace notturno che odiava la luce, “schittando” bombe di notte, i bimotori avevano raggio di azione e di tempo poco più dei cacciabombardieri, assai meno delle “fortezze volanti”.

Operavano di giorno, bombardavano a vista senza l’ausilio di sistemi di puntamento, attaccando scali e ponti ferroviari e quel poco evidente che rimaneva delle industrie. 

In zona vi era il ponte ferroviario di Palazzolo; e quando a volte squadriglie di aerei arrivavano dalle città sorvolando Rovato, era palese che le bombe rimaste da sganciare erano riservate al manufatto di Palazzolo. E qui, con poco stile letterario, tronco caro amico lettore! 

Perché se tu sei stufo di leggermi (e a ragione), lo sono anch’io di scrivere. Però sono contento di aver trasmesso pagine di racconti storici, di accadimenti memorizzati in quei cupi momenti…ahimè, assai remoti, alle generazioni succedute. 

Se stupore e meraviglia destavano quegli sciami di aerei da combattimento e bombardamento sino al punto di dare l’impressione di oscurare il sole, beh!

Perché non goder sempre di un arcobaleno e della limpidezza di un cielo azzurro sgombro da “girini” di stagno o di “piattole”?

Tarcisio Mombelli

 Trascrizione ed adattamento a cura di Emanuele Lopez