Ogni mamma ha un personale tono e modo amorevole per chiamare i suoi figli, al di là del nome di battesimo.
Anche nel nostro dialetto, pur essendo una lingua poco incline alle smancerie, ad ogni età dei figli molte sono le varianti affettuose per nominarli.
Termini che lasciano trasparire molto bene l’amore e la tenerezza che ogni mamma prova nei loro confronti, perché anche quando sono ormai cresciuti, dentro di lei rimangono bambini, vorrebbe poter essere sempre al loro fianco per proteggerli ed evitare loro il più possibile dolori e delusioni.
Per questo, probabilmente, molte mamme prima del nome proprio del figlio dicono “èl mé…” per sottolineare iconsciamente il legame profondo ed unico che li unisce; “èl mé pütì – la mé pütina” (il mio bambino/a), quando sono piccoli; “èl mé gnaro/a” quando sono ragazzi; “èl mé s-cèt/a” quando sono giovanotti e signorine; “mé fiöl/a” quando sono adulti.
Razionalmente man mano passano gli anni la mamma li accompagna, li consiglia, insegna loro i valori etici basilari, ma poi li lascia volare verso un futuro che devono costruirsi da soli, tra qualche inevitabile sbaglio e appaganti conquiste.
Negli ultimi decenni tuttavia i figli raggiungono la autonomia piuttosto tardi, dopo lunghi anni di studio e attesa spesso altrettanto lunga di un lavoro: situazioni che dunque obbligano il prolungarsi della convivenza in casa con i genitori, a volte davvero per troppi anni.
Una volta invece la adolescenza era ben più breve, sia maschi che femmine venivano responsabilizzati molto presto, in prospettiva di un’indipendenza precoce, per una serie di circostanze diverse da quelle attuali: la maggior parte cominciava a lavorare già a 14 anni (se non prima), di lavoro ce n’era in abbondanza un po’ in tutti i settori e a tempo indeterminato.
Pertanto sicurezza economica, mancanza di libertà, soprattutto per le ragazze e desiderio di formarsi una propria famiglia, faceva sì che in genere i giovani si sposassero in media intorno ai 20 anni, staccandosi in modo naturale dalla famiglia d’origine e in particolare dalla mamma.
A parte casi rari, tuttavia, ogni mamma sa comportarsi con equilibrio nella educazione di ogni figlio, per non tarpargli le ali, ma nello stesso tempo fargli capire che lei c’è e ci sarà ogni volta che ne avrà bisogno.
Al di là delle parole, dei nomignoli, dei soprannomi, dei nomi affettuosamente accorciati, allungati, storpiati, della pacca sulla spalla, di un bacio, di una telefonata, di un abbraccio, il messaggio più affettuoso però che traspare evidente, è lo sguardo che si illumina ogni volta che una madre chiama suo figlio, ogni volta che parla di lui con altre persone e ogni volta che pensa a lui anche se è lontano.
Ornella Olfi