In Italia l’Alzheimer colpisce oltre 700.000 persone e coinvolge nel profondo anche tanti figli che si prendono cura dei loro cari mentre, giorno dopo giorno, scivolano sempre di più in quella terra della dimenticanza che capovolge totalmente il rapporto con i propri genitori. Un percorso doloroso e intimo che non tutti hanno il coraggio di raccontare ma che può essere di grande conforto a chi si trova a vivere la stessa situazione. 

Stefano Cogno (nella foto con la madre) lo racconta a cuore aperto narrando con estrema sincerità e commozione il dolore di una patologia che toglie tutto ma allo stesso tempo regala squarci di luce fatti di tanto contatto fisico denso di affetto. «L’amore per mia madre Marina è un sentimento profondo che mi accompagna da sempre.

Mia madre mi ha aiutato e supportato nelle attività lavorative, ha appoggiato tutte le mie scelte di vita, è il punto fermo della mia esistenza.

L’Alzheimer l’ha colpita ancora in giovane età, a 60 anni, con una genesi quasi improvvisa: dovevamo cucinare la ricetta del manzo all’olio e lei mi chiese “Stefano, cos’è il manzo all’olio?”. 

Queste sono state le prime avvisaglie, che inizialmente abbiamo attribuito alla stanchezza o allo stress e che invece piano, piano hanno portato ad una degenerazione costante. 

Il periodo più difficile è quello in cui nessuno si rende ancora ben conto della malattia.

Ricordo quando mia madre decideva di preparare il minestrone con tutte le verdure per poi berne solo il brodo o quando trovavo le fettine di prosciutto tutte allineate rigorosamente le une sopra le altre.

“Mamma cosa fai” le dicevo ma sempre con la paura che si arrabbiasse o mortificasse.

Nel corso di questi nove anni sono diventato il padre di mia madre. 

Ho imparato a programmarmi la giornata, ad avere tutto a portata di mano, ad ottimizzare i tempi.

La mattina la sveglio, la sistemo, le preparo la colazione e poi vado al lavoro e lei resta con mio padre ma il pensiero costante durante la giornata torna su di lei che è tutto il mio mondo»

Il racconto di come il rapporto con la madre sia piano piano cambiato, di come i ruoli si siano capovolti, della sua vulnerabilità, della perdita di identità e di ricordi si sussegue con grande emozione e Stefano si sofferma non solo sulle esperienze quotidiane con questa devastante malattia ma su quei timori che galleggiano costantemente nella mente di un figlio che si trova ad affrontarla, angosce che lo tengono sveglio la notte.

«La conoscenza di mia madre si rinnova ogni giorno. Ci chiama ancora per nome e mi chiedo se non sia solo abitudine: mio padre è la presenza, io sono l’emo-zione. 

Arrivo, la bacio, la abbraccio, ci facciamo foto e video per godere di ogni momento in cui ancora siamo madre e figlio, per esorcizzare il pensiero del “dopo”, quel dopo che mi spezza le parole in gola anche solo a pensarci.

Ogni sera le dico “Ci vediamo domani neh?

Non fare scherzi” e solo alla sua risposta affermativa mi addormento sereno. 

È un angelo caduto del cielo di cui io mi sento il custode. La mia bambina da proteggere, della quale tutelare le abitudini, i momenti intimi, i riti costanti che la tranquillizzano.

Cerco di tenerla attiva ogni giorno, di ancorarla quanto più possibile a quei ricordi che sembrano sfuggirle sempre più velocemente di mano: le faccio contare le gocce, guardiamo insieme le vecchie foto di famiglia.

So che non serve a molto e ogni volta è una coltellata al cuore. 

La cosa che mi manca di più e poterla far viaggiare, tornare nei posti dove mi portava da bambino quando era lei ad accudirmi, a viziarmi e a tenermi per mano.

Niente è come prima ma di mia madre mi resta l’im-mensità racchiusa nei nostri abbracci, quelli che nemmeno la dimenticanza potrà mai portarci via».

Marzia Borzi