“È stata dura, ma non farei mai nessun altro lavoro”.

A parlare è una infermiera dell’ospedale di Manerbio. Lei – che chiamerò con un nome di fantasia Paola – è solo una delle tante operatrici e operatori sanitari che in queste settimane ha vissuto sulla propria pelle le fatiche di una emergenza sanitaria epocale. 

E Paola ha fatto un racconto che può essere considerato universale e che accomuna tutti coloro che operano nei nosocomi italiani e non solo. L’ho incontrata pochi giorni fa. 

La mascherina ci ha costretto, chiaramente, a guardarci solo negli occhi. L’espressione del viso l’ho scorta solo da lì e dopo pochi minuti le ferite ancora troppo vive per non fare male, sono state quasi palpabili.

Paola ha parlato di un grande lavoro di squadra tra medici, infermieri, operatori socio sanitari e addetti alle pulizie, tutti sulla stessa nave in cui “nessuno era comandante ma tutti remavano insieme in una direzione non ben definita”.

La paura, racconta l’infer-miera manerbiese, era ben visibile negli occhi di chiunque e “quando sembrava di vedere una minima luce in fondo al tunnel, dopo poco tutto tornava nebuloso e si era di nuovo da capo”.

Il sentore comune è stato quello di impotenza totale di fronte ad una situazione che sfuggiva di mano continuamente. 

“Lavoro come infermiera da ben 25 anni. Ne ho viste tante, ma questo scenario era davvero impossibile da immaginare” racconta Paola “ci siamo trovati a combattere contro qualcosa di indefinito capace di cambiare continuamente.

I malati erano costretti a rimanere soli senza il conforto dei parenti ed ogni volta che chiamava una moglie, un marito o un figlio era un colpo al cuore. Si doveva trattenere le lacrime e cercare di rispondere con la massima sincerità”.

Poi c’erano le telefonate da fare ai parenti di coloro che non ce l’avevano fatta. Chi si trovava in quel momento ad assistere all’ultimo respiro del paziente doveva chiamare, magari dopo ore estenuanti di assistenza in corsia, con la tensione accumulata di giorno in giorno e con i nervi pronti a cedere in ogni momento.

Dura non trattenere il pianto. “L’abbiamo fatto” spiega Paola “abbiamo cercato di essere forti. Forse abbiamo trattenuto tanto e ora che la situazione è migliorata molti di noi hanno il tracollo psicologico con sfoghi in solitudine tra le pareti dome-stiche”.

A tutti gli operatori sanitari è stata offerta la possibilità di un supporto psicologico ma sono stati pochi coloro che ne hanno usufruito. “Quando si finiva il turno di nove o dodici ore si scappava a casa. Non avrei retto nemmeno un secondo in più in ospedale, lo stress era davvero alto”.

I turni di lavoro iniziavano con un’ora in anticipo, il tempo necessario per la vestizione. Poi finivano con un’altra ora in più, il tempo necessario per spogliarsi e fare una accurata doccia con il cloro. 

Le conseguenze, dopo tante settimane con mascherina, visiera, involucri protettivi e il clooro, sono state piaghe, vesciche, rossori su tutto il corpo. 

“Questi sono i segni più visibili del nostro lavoro e sono quelli che se ne andranno più rapidamente” racconta l’infermiera “il resto, le ferite quelle vere, ce le portiamo in famiglia, tra le pareti domestiche, tra i nostri cari, mariti e figli che ci raccomandano di non portare il covid a casa”.

La voce di Paola qui si è interrotta per l’emozione. Poi, l’infermiera ha raccontato dello strazio di dover ammassare i corpi dei deceduti in una stanza chiusa a chiave. 

Troppe barelle riunite in uno spazio – nemmeno piccolo – e su ciascuna solo un nome, un cognome e una data di nascita. 

E il virus che ha sconvolto il mondo non ha risparmiato certo gli stessi operatori sanitari, forse tra i primi ad essere contagiati. 

“Ne ho visti tanti di colleghi ammalarsi” dice Paola “ce l’hanno fatta ma qualcuno, con patologie varie, porta ancora i segni e non ne è ancora uscito completa-mente”. 

Ora che i numeri che ci vengono snocciolati ogni giorno sembrano raccontare di una epidemia che si sta allentando, resta comunque la paura di una nuova ondata di contagio.

L’ospedale di Manerbio oggi è pronto per un eventuale ritorno del coronavirus. Medici e infermieri ora hanno strumenti e conoscenze maggiori di difesa, ma il virus continua a fare paura. “Molti colleghi hanno disdetto ferie nonostante possano andare” racconta Paola “ad oggi mancano le forze anche per pensare ad altro. Ma ce la faremo a superare anche questa”.

E mentre virologi, infettivologi e anestesisti vari si scontrano sul palcoscenico mediatico, un foltissimo esercito di professionisti continua ad operare in silenzio tra le corsie degli ospedali.

Erano e sono i nostri eroi, si è continuato a dire in tutti questi mesi. Ma loro, dice Paola, non vogliono sentirsi chiamare eroi. Anziché appellativi, neanche poi così lusinghieri, bisognerebbe – ndr – mettere mano ad un contratto infermieristico, ormai obsoleto da tempo, per dare il giusto valore, anche economico, ad un lavoro che fa rischiare la vita a questi “eroi” per poco più di mille euro al mese. 

Barbara Appiani