Fa uno strano effetto leggere questo libro (del 1947) nel periodo del Coronavirus. Leggerlo anche solo due anni fa non sarebbe stata la stessa cosa, come dire che, contrariamente a quanto si possa pensare, è l’attualità ad avvalorare uno scritto, e non viceversa.
E’ stupefacente trovare così tante analogie fra la trama raccontata e la realtà attuale. E capire esattamente cosa provano i protagonisti della vicenda: le stesse angosce, paure, privazioni, sacrifici, sofferenze, errori, traumi.
Il Male arriva, così, senza bussare e senza una spiegazione.
E lo si sottovaluta (ci ricordiamo tutti il “è solo poco più di un’influenza”) per realizzare, poi, che senza accorgersene, ci ha già travolti. E non ci sono tempo, conoscenza, uomini, riflessione. Camus scrive: “Nel mondo ci sono state pestilenze e guerre; e tuttavia esse colgono gli uomini sempre impreparati.
Quando scoppia una guerra, la gente dice “Non durerà, è cosa troppo stupida”. E non vi è dubbio che una guerra sia davvero troppo stupida, ma questo non le impedisce di durare”.
Si arriva presto (tempo da perdere non ce n’è, bisogna agire) ad adottare provvedimenti per contenere il contagio, con conseguenti ragionamenti e dibattiti sugli stessi: “La questione non è di sapere se le misure sono gravi, ma se sono necessarie per impedire a mezza città di essere uccisa”.
L’epidemia diventa “cosa nostra, di tutti; siamo tutti presi nello stesso sacco e bisogna cavarsela”. Perciò ecco che ritroviamo situazioni a noi, oggi, familiari, che solo qualche anno fa ci avrebbero fatto pensare, se non a fantascienza, a cose comunque non comprensibili o tangibili: isolamento, quarantena, confini chiusi, divieti e privazioni delle libertà. E non è semplice accettare tutto questo: “I nostri concittadini, apparentemente, faticavano a capire quello che gli era capitato. C’erano i sentimenti comuni, quali la separazione e la paura; ma si continuavano anche a mettere in prima linea le personali preoccupazioni. Nessuno ancora aveva realmente accettato la malattia; per la maggior parte erano soprattutto sensibili a quello che turbava le loro abitudini o toccava i loro interessi”. Vi dice qualcosa?
Quanto ci abbiamo messo (se mai ci siamo riusciti) a capire la gravità della situazione? Quante volte hanno prevalso l’egoismo e l’italica furberia dell’aggirare le leggi?
E ancora, si ritrovano il brancolare nel buio perché nessuno sa o ci capisce nulla, si va per tentativi, per ricorsi storici (i flagelli del passato), si spera nel clima più mite (o più rigido, come con la peste), i vaccini (i sieri nel libro), le mutazioni (da bubbonica a polmonare nel romanzo, le varianti dei nostri giorni), il ricorso alla straordinaria risorsa del volontariato. Per non parlare delle vittime: cifre e numeri quando invece si sta parlando di persone, che in molti casi muoiono da sole, lontane dai familiari, senza un commiato.
Il libro si conclude con una graduale e quasi “naturale” (visto che le misure di contenimento non erano cambiate) scomparsa dell’epidemia. E con una, concisa ma brutale, sintesi di ciò che è: “Un mondo insensato, in cui l’uccisione di un uomo era quotidiana al pari di quella delle mosche. Una barbarie ben definita, un calcolato delirio. L’odore di morte che istupidiva tutti quelli che non uccideva.
La peste era stata, soprattutto, esilio e separazione”.
Nel 2021 noi non siamo ancora arrivati alla fine del libro; il traguardo è sempre più vicino ma serve ancora pazienza. E attenzione, perché le ultime parole del narratore (il dott. Rieux) sono: “Lui sapeva ciò che la folla ignorava, e che si può leggere nei libri, ossia che il bacillo della peste non muore né scompare mai, che può restare per decine di anni addormentato nei mobili e nella biancheria, che aspetta pazientemente nelle camere, nelle cantine, nelle valigie, nei fazzoletti e nelle cartacce e che forse verrebbe giorno in cui, per sventura e insegnamento agli uomini, la peste avrebbe svegliato i suoi topi per mandarli a morire in una città felice”.
Paolo Cazzuli