Tra chi la guerra l’ha vissuta a casa e chi sdraiato nei letti di una corsia di ospedale, c’è a Orzinuovi anche chi l’ha combattuta con la professionalità, la competenza e senza vergognarsi a dirlo, con la paura.

Due di questi medici eroi agli Ospedali civili  sono il dottor Carlo Lombardi, cardiologo e il dottor Diego Pezzola, medico chirurgo di grande stima. Quest’ultimo ha svestito il suo camice e ha lasciato i ferri del mestiere per indossare quello di medico del Pronto soccorso, là dove, a detta sua, “ancora più che nei reparti, si è vissuto davvero un incubo”.

Come è cambiata la vita in questi mesi agli Ospedali Civili?

Gli ospedali si sono trasformati in una trincea, o meglio, in un lazzaretto. Quello che ho visto io, nonostante sia allenato a vedere cose brutte, è una cosa indicibile. Non avevo mai visto né ipotizzato una situazione simile.

Ci siamo improvvisamente trovati a ricevere una quantità  di pazienti esorbitante senza avere i mezzi e la cultura per gestirli.

Quando le hanno chiesto di svestire il camice del suo reparto per impiegarsi nella lotta al Coronavirus, quale è stata la sua reazione?

All’inzio il mio reparto di chirurgia lavorava al minimo perché gli sforzi erano tutti concentrati sul Covid. Allora mi sono detto: “Vado ad aiutare quelli del pronto soccorso”, da volontario.

Qual è il ricordo più triste di questi giorni? 

Nella notte in cui ho fatto il turno in Pronto soccorso per la prima volta, verso il 20 marzo,  ho visto scene e situazioni indicibili. Un incubo che mai avrei potuto immaginare succedesse.

Nel Pronto soccorso c’erano 120 persone gravi o gravissime. 

Solitamente il Pronto soccorso di Brescia ospita mediamente 20 o 30 pazienti. E poi c’era il triage esterno che ospitava i meno gravi ed erano circa 80. Nei corridoi 60 malati in una specie di penombra, uno vomitava, uno aveva l’ossigeno, un altro voleva telefonare. Non lo dimenticherò mai. La struttura non era pronta. Eravamo protetti in qualche modo, mascherine sì, tute zero. Chi ha lavorato, l’ha fatto quasi a mani nude, senza strumenti e non avendo cognizioni precise di cosa si dovesse fare.

L’ospedale era come un lazzaretto e chi non era malato e doveva sfortunatamente essere ricoverato, si ammalava. C’ra una mancanza di preparazione.

Ha avuto paura quando ha deciso di fare il turno in Pronto soccorso?

Quando sono andato a Brescia a fare il turno di notte avevo paura, anche se poi l’ho rifatto altre volte. Ma durante il tragitto ero solo in auto  e ho voluto chiamare due persone del mio paese cui sono particolarmente affezionato per motivi diversi. Uno era il dottor Massimo Bosio, l’altro il dottor Piersevero Micheli.

Massimo poi in questa guerra ha perso davvero  la vita sul campo. 

Era un  amico di una vita. Mi disse che aveva solo tre mascherine chirurgiche e che le faceva durare due o tre giorni perché non si trovavano.

Una mascherina chirurgica però  dopo due o tre ore perde la sua efficacia. Bosio dopo pochi giorni è morto e a lui va tutta la mia stima per come da vero guerriero ha saputo affrontare questa pandemia. Piersevero anche è un mio amico. Stimo la sua professionalità. Sapevo che era impegnato in questa battaglia e a lui va un grazie per quanto ha fatto ad Orzinuovi. Per affrontare la ma paura ho pensato a loro.

Quale è stata la difficoltà più grande per i medici in questi mesi?

In prima linea ci sono andati i medici del Pronto soccorso,  poi quelli che sapevano curare le insufficienze respiratorie, i disturbi cardiocircolatori che complicano la malattia e infine gli anestesisti e gli infettivologi.

I primi 15 giorni di marzo questa gente è stata al fronte senza avere sostituzioni né soste, numericamente e culturalmente impreparati e emotivamente spaventati. Queste persone mi trasmettevano la loro paura, il loro non saper come muoversi. Il mio reparto lavorava al minimo. Di là invece era una rincorsa continua ad interpellare la Cina che era più avanti di noi di tre mesi e vantava una maggiore esperienza. 

Come hanno reagito allora i medici di fronte a una tale situazione?

I medici non sono stati selezionati per la loro capacità di reggere lo stress, non tutti hanno coraggio. Il medico deve avere una vis dentro, una forza. Qualcuno ha preferito tirarsi indietro non si è buttato ad aiutare quelli che erano al fronte. Molti colleghi poi si sono ammalati, medici e infermieri. Alcuni erano esaltati e hanno ignorato i pericoli, il personale del pronto soccorso è  stato formidabile perché ha resistito, nonostante non ce la facessero più  fine psicologicamente e fisicamente.

Poi la situazione è migliorata?

Poi pian piano l’ospedale ha liberato alcuni reparti. Adesso, al 10 maggio, metà dei reparti destinati negli scorsi due mesi ai malati di Coronavirus hanno ripristinato la loro destinazione originaria. Avevano allestito 70 posti in rianimazione e ora sono circa 30. Ora ci sono ancora aperti 2 o tre reparti Covid con meno di 100 letti. Nel periodo clou eravamo a 400 posti letto dedicati ai contagiati. Ora stiamo cercando di tornare pian piano ad un’assistenza oltre il Covid. 

E il tasso di mortalità?

Nei reparti Covid è stato altissimo, con una media di due o tre decessi al giorno. Peraltro le persone si aggravavano nel giro di poche ore e in breve tempo perdevano la vita.

E’ vero che i medici si sono trovati a decidere per età e per condizioni di salute dei pazienti?

Si è cercato di fare di tutto, di impegnarsi al massimo per salvare la vita di tutti. Certo, non possiamo dire che non si doveva scegliere. Nei giorni più critici i posti in rianimazione venivano dati a chi aveva più possibilità. Poi molti sono stati spediti in altre città, a Varese ad esempio.

Sicuramente credo che gli anestesisti si siano trovati  a decidere, non avevano alternative. Di fronte a chi non aveva quasi speranza si è  scelto di dare la possibiltà a un altro che magari avrebbe potuto farcela. Sono scelte drammatiche e ho grande comprensione per chi si è trovato a doverle fare.

La situazione poteva essere gestita meglio?

Si, la Germania è arrivata ad avere in questi periodi 40 mila posti di rianimazione, l’Italia 10 mila. In Germania e in Francia ci sono stati molto meno morti.

Noi siamo stati più simili nelle condizioni alla Spagna. Noi poi abbiamo avuto la sfortuna di avere quasi tutto concentrato in Lombardia.

Quali sono i pazienti più a rischio di non farcela  in questa malattia?

Le statitistiche ci dicono che sono gli anziani.

Il 95% dei morti aveva più di 60 anni; l’85%  era sopra i 70 e più dell’80% aveva almeno una patologia. Per cui sono morti gli anziani e i malati. Non i sani.

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