Vita tribolata quella di mamma Amelia Fogazzi, rimasta vedova, ebbe anche di curarsi dell’unico figlio Ettore Pedrini.

Aveva casa in piazza Cavour nel palazzo di proprietà dei Sorlini dove creò l’attività di stiratrice nel vano angolare laddove la grande Piazza congiunge la via Ricchino. Vacche magre negli anni ’30 del secolo scorso.

Pochissimi coloro che potevano avvalersi del lavoro specifico dell’Amelia, ma a lei bastava quel poco che guadagnava. Il figliolo cresceva bene in serenità e salute seppur nella indigenza.

Poi per Amelia ancora un agguato della cattiva sorte: Ettore, ormai fatto ragazzo, bravo a scuola, corretto e ben inseritosi con chi lo attorniava, in breve tempo a venire, denunciò febbre, tosse, pallore e malavoglia nell’età che non trattiene gioiosità e la voglia di vivere con esplosioni di vivacità.

Dal medico i primi fondati sospetti e poi esplose la bomba a dilaniare il sentimento dell’amore materno: «Ettore è seriamente ammalato, è affetto da tubercolosi!».

Così con il calvario del ragazzo, ricominciò un’altra faticosissima erta della quale ancora una volta non vedeva la cima.

Il Bacillo Koch e la TBC, nelle scuole di ogni ordine e grado, erano ben spiegate con dovizia e preparazione didattico sanitaria.

Alla malattia si dava insomma il giusto peso sulla pericolosità del morbo e del contagio che, il più delle volte, ghermiva a mietere nei giovani adolescenti. 

Bastava il sospetto perché l’additato o nominato facesse vuoto a lui tutt’intorno. Proprio come nei tempi della peste descritta da Manzoni nei Promessi Sposi (seppur senza confronto): “…Atten-zione all’untore!”

E fu per questo malaugurato motivo che il mondo all’improvviso diventò molto piccolo per Ettore, infinito per la mamma, che non sapeva più dove aggrapparsi per avere sostegno. “Guai ai vinti!”. Espressione minacciosa usata non solo nelle tenzoni, ma concreta nei più deboli sofferenti. 

La malattia, anche se curata, non dava segni di miglioramento. Impietosamente il bacillo erodeva, demolendo, il corpo di Ettore ormai vistosamente segnato.

A seguire giunse la decisione delle autorità sanitarie preposte: mamma Amelia fu informata che il figlio dovesse essere trasferito a Borno nel sanatorio là in essere. E ancora una volta la cima delle sofferenze e dei sacrifici si allontanava.

«Signore IDDIO – avrà domandato la poveretta – fino a quando dovrò scalare questa montagna di dolore senza fine?».

Privarla di suo figlio che, se anche debole e emaciato, lei curava con quell’immenso amore che solo nel cuore materno trova spazio e ragione.

E poi, oltre al sentimento, le difficili realtà che si vennero a creare: spostarsi da Rovato a Borno per rendere visita al figlio, già in periodo di guerra, non era poi così facile. Voleva dire salire sul treno a Rovato, scendere a Malegno da dove poi un autobus l’avrebbe condotta lassù al nosocomio sito ben fuori dal centro abitato. Non restava altro da fare.

Non ci è dato sapere quante volte Amelia abbia fatto visita al figlio perché, oltre il tempo e le spese vive, la guerra infuriava e dissanguava.

Ricordo bene però quando, due sacerdoti responsabili dell’oratorio, organizzarono una gita in Valle Camonica con il preciso scopo di vedere e salutare Ettore, che moltissimi di noi manco conoscevano ed io ero tra questi. Era là dentro ad attenderci in quel grande parco; a dividerci rete metallica; noi attaccati a quella, lui distante una ventina di metri. Zona “Off Limits”.

Sorrideva e parlava quella figura esile, felice della nostra visita in quell’estate del 1941 rappresentata da tantissimi ragazzi.

Da poco più di un anno la guerra infuriava ed i coetanei di Ettore, nati nel 1922, già morivano nelle steppe russe, nei deserti africani, sulle montagne balcaniche, sui confini con la Francia, soprattutto quando sopraggiunse l’inverno del 1942. 

Proprio in quest’ultimo anno, nell’estate del 1942, all’incirca nel periodo ferragostano, quando io avevo 12 anni e di casa abitavo sulla fine di via S. Stefano, nella tarda mattinata, sento l’inconfondibile suono della sirena in uso sulle autolettighe.

Mi porto all’uscio di casa nel mentre transita il veicolo per fermarsi poco dopo ai piedi della scalinata che mena all’ingresso del santuario di Nostra Signora di Rovato. Velocissimi passi ed eccomi là sul posto. Lo stridulo suono richiama la curiosità che comunque non dovrebbe essere ghiotta per rispetto. Quello che vidi vorrei tanto trasmetterlo a voi che leggete, perché è ancora fisso nella mia mente, ma so di non riuscirci.

Mamma Amelia muta e in lacrime, due o più altre persone aprirono gli sportelli posteriori del veicolo e, con accortezza e dolcezza, fecero scivolare sull’ acciottolato una barella.

Intuisco trattasi di Ettore ancora più quando la mamma si chinò per coprirgli la bocca con lembo di coperta.

Non importava se il caldo di agosto fosse opprimente, per mamma Amelia piangente anche quello era un atto dovuto. Suo figlio era morente. 

E poi, nell’irreale più assoluto silenzio, l’ascesa su quella bruttissima scalinata fatta di sassi e pietre. E i 5 alti, brutti e spelacchiati platani centenari ai lati, sembravano becchini curiosi senza senso di pietà. 

E infine giunsero nella buia navata, prima di deporre la barella nella cappella propria della Madonna di S. Stefano.  Mi è ancor più difficile scrivere per descrivere l’ultima speranza della straziante Amelia. 

Confidò in Maria, forse offrì la sua vita in cambio dell’altra, di Ettore, e poi quella “Ave Maria” fissando con lo sguardo lassù, in cima all’altare, dove l’immagine non ancora incoronata sembrava guardare pietosa.

Ancora rabbrividisco.

Confesso che non conosco sguardi e parole in spiritualità ed è per questo che mi sento di dire la mia: “Certamente Maria ha chiesto a sua Figlio di avere pietà e dimostrare pietà e comprensione per la giovane vita alla fine dell’esistenza”. 

Ma forse suo Figlio che anche di lei, Maria, è Padre, l’avrà convinta che lassù, dove stanno loro, Ettore avrebbe trovato infinito amore, benessere e salute per l’eternità.

Cosi tanto da tracimare fino ad arrivare a mamma Amelia ancora vincolata dalla vita terrestre.

Da quell’immensità infinita a noi sconosciuta avrebbe trasmesso, chissà come, tutto ciò che è di bello, tranquillità e rassegnazione comprese». 

Pochissimi giorni dopo, mano nella mano con la mamma, l’addio. Amelia non pianse forse, non avrà più avuto lacrime. Era il 18 agosto 1942. 

Mamma Amelia partì per raggiungere l’amato figlio Ettore il 13 dicembre 1958, due mesi dopo avrebbe compiuto 58 anni.

Lasciatemi pensare che forse invisibili corpi celesti l’abbiano accompagnata al figlio che sorridente l’attendeva.

Tarcisio Mombelli

Trascrizione ed adattamento a cura di Emanuele Lopez

(Foto by: www.lobardiabeniculturali.it)