Sono trascorsi due mesi, due mesi e poco più. Un tempo che sembra infinito fatto di restrizioni, di decreti, di divieti, di bollettini quotidiani. Tempo di  silenzio e di sirene spiegate, di vuoto in questa piazza che ancora, con i pochi esercizi aperti resta appesa al filo rosso della vita che prima o poi dovrà riprendere. Sono una farmacista ed ogni mattina, salvo il tempo della mia quarantena, mi reco al lavoro, dietro il bancone, la mia trincea. Lì aspetto chi arriva, in cerca di farmaci e di un consiglio. Ascolto i racconti trafelati delle vite degli altri che si compongono da dietro le mascherine. Mentre li ascolto sembrano tutti uguali, tutti a formare lo stesso mosaico. Covid  – 19 è il nome che abbiamo imparato per descrivere ciò che sembrava una specie di influenza, quando arrivavano le prime immagini dall’altra parte del mondo faceva già paura ma era troppo distante, così lontano da non turbare le nostre esistenze; più di due mesi fa era questo, un malanno misterioso su cui poi si è detto e scritto di tutto, finchè non è arrivato qui nel nostro paese, che ha chiuso  tutto, ha abbassato le saracinesche, chiuso le porte della scuola, delle Chiese, del cimitero, chiuso tutti i luoghi nei quali la vita assumeva la forma della propria preziosa normalità prigioniera ormai di un’immaginaria linea rossa. Perché il covid 19 quando è arrivato qui, non era più un’influenza un po’ più seria, ma era già un killer silenzioso, un ladro di vite. Giorno dopo giorno la lista dei contagi e dei morti si faceva più lunga e non erano più solo numeri ma volti, voci, occhi e sorrisi. La farmacia come la piazza è un luogo dove si intrecciano storie e racconti, un passaggio obbligato della giornata per molti che ci hanno lasciato, entrare a salutarmi tanto da preoccuparsi se qualcuno mancava all’appello. Il dolore è ancora vivo, mentre scrivo e sfilano nella mia mente tutti i volti di questo tragico covid orceano, mi pare di sentirle ancora le chiacchiere spensierate dei “miei” tifosi juventini incalliti, che non mancavano mai di sorridere a quella foto con il loro idolo appesa in farmacia. Quante volte mani cariche di doni sono arrivate per lasciare un segno di gratitudine, per affermare la propria gentilezza garbata e senza pretese … mai più assaggerò fichi così dolci e mai più riceverò un segno così tenero dell’arrivo dell’estate. Infinite le mattine con le mie nonnine, eleganti con il giro di perle, il rossetto e la messa in piega come si deve,  vite che mi hanno sfiorato e anime che mi hanno accarezzato con la loro delicatezza. Vite fatte di cose semplici e preziose come i centrini ricamati a mano.  Non si ha avuto il tempo di trattenerle ancora un po’ queste vite per poter ringraziare ancora e ricordare di più, per poter conoscere meglio e fare di più. Resta un mazzo di carte su un tavolo vuoto di una partita alla quale nessuno può essere invitato. Storie eccezionali nella loro granitica umiltà, quanto si poteva imparare da quelle parole garbate o stringendo quelle mani. Gente di una volta si dice, gente che non si stanca che non ha paura del sacrificio e del lavoro, la parte di questo paese che in silenzio l’ha fatto grande a suo modo con la propria professione anche, diventandone parte. Persone che hanno sofferto, che hanno lottato sempre senza disturbare e allo stesso modo se ne sono andate. Vorrei riuscire a tratteggiare tutti in queste righe le sorelle, i fratelli che il covid ha portato via, a distanza di pochi giorni o settimane, le coppie quelle belle, separate senza pietà dal virus e quelle che si sono aspettate per raggiungersi. Le conosco tutte queste persone e mi fa arrabbiare ancora non esserci stata di più come farmacista e come cittadina. Quante telefonate ho ricevuto che mi chiedevano cosa fare, già l’ombra del mostro nei respiri affannosi dall’altra parte del telefono e la  mia impotenza, di essere umano che mi tormenterà ancora a lungo. Penserò a loro quando vedrò un fiore di cotone, così raro e prezioso come l’animo di chi me l’ha regalato, penserò a loro immaginando passi di ballo da qualche parte lassù. Tanto si può dire del covid da quello che ha tolto alle famiglie, alle imprese e ai lavoratori. Dalle polemiche, agli errori, alle mancanze rispetto a quello che si sarebbe potuto fare e che non si è fatto, alle contraddizioni ma in fondo  è alle infinite storie personali ed umane, al dolore di chi l’ha visto nei propri cari, di chi ha perso un affetto che voglio dedicare come vice sindaco tutti i miei pensieri e sentimenti nella convinzione che dobbiamo aver imparato qualcosa da questo disastro, ma ci vorrà tempo, tanto tempo per scoprirlo, ora piangiamo i nostri cari, ricordiamoli tutti, tratteniamoli ancora un po’ anche se la luce si intravede in fondo al tunnel, anche se l’eco delle sirene è più raro. Ci è stato negato il tempo del commiato, dell’addio ma non quello del ricordo.