Cosa ci sta insegnando questo coronavirus? A non dare per scontato nulla, a distinguere il superfluo dal necessario, ad abitare lo spazio domestico come mai prima d’ora, ad osservare con attenzione più accurata quegli oggetti abbandonati da tempo sugli scaffali della libreria, a riprendere in mano i libri sui quali abbiamo trascorso molto tempo della nostra giovinezza, a sfogliare vecchie fotografie e riandare alla piacevole memoria di un passato ormai lontano, quando “si stava meglio anche se si stava peggio”, a conoscere nuovi modi di lavorare, come lo “smart working”, ad apprendere nuove abitudini, a farci vedere il lato positivo, costruttivo e produttivo della tecnologia al tempo dei social, a riappropriarci degli affetti, delle relazioni, a godere del silenzio intorno a noi e dentro di noi, a vivere slow senza l’ansia del fast, a riprendere a seguire i nostri ritmi biologici e non quelli economici, a rivolgere la nostra attenzione ai suoni della natura ovattati un tempo, non molto lontano, dai rumori assordanti e inquinanti delle auto e delle fabbriche, ad apprendere nuove abilità, hobbies, ad avere maggiore cura di sé e di chi condivide con noi lo spazio domestico, a pensare a come concretizzare un progetto, un sogno finito nel cassetto proprio per mancanza di questo tempo imprevisto a nostra disposizione, a vivere l’ozio come una preziosa opportunità per fermarsi a riflettere, a ripensarsi sia personalmente che professionalmente, a riprogettare il proprio futuro in un’ottica trasformativa, propositiva e migliorativa, a  tenere a freno le spinte narcisistiche, a ridimensionare quel senso di onnipotenza nei confronti della vita e della realtà, a fare i conti con  il nostro limite e quello delle cose, ma soprattutto con l’inaspettato, con l’incerto, a considerare l’imprevedibilità come costante più che come eccezione alla regola, a scoprire il valore della solidarietà umana e dell’appartenenza patriottica, a ribaltare la scala delle priorità e riposizionare valori, come la salute, passati in secondo piano. E chi l’avrebbe mai detto che il balcone di casa propria, ammesso che uno ce l’abbia, da elemento poco più che decorativo ed ornamentale, si è trasformato in luogo di maggior aggregazione dove ritrovarsi, il palcoscenico per esibirsi e mandare il proprio grido liberatorio, come fosse una danza maori, di augurio che comunque “tutto andrà bene”? Questo piccolo angolo sconosciuto dell’abitazione è diventato, oltretutto, anche la platea dove poter esprimere la propria gratitudine ai medici ed infermieri professionisti che con filantropica dedizione si sono occupati e si stanno occupando delle persone purtroppo infettate dal virus. Ecco questo ci insegna: ad apprezzare ciò che fino ad oggi abbiamo dato per scontato. Ma la domanda è: una volta usciti dall’emergenza, che ne sarà di tutto questo? Cosa rimarrà di questo tempo insolito che abbiamo avuto a nostra completa disposizione? Cosa cambierà nelle abitudini, nei modi di fare, di pensare, di organizzare, di lavorare, di vivere i rapporti della gente, delle organizzazioni, della politica, dell’economia? Una cosa è certa: ciò che stiamo vivendo è qualcosa di sconvolgente su scala planetaria, uno tsunami che sta segnando la vita di molte persone, che sta rivoluzionando tutti gli aspetti della nostra vita. Di questo infausto passaggio credo che rimarrà una traccia indelebile nelle nostra memoria e nei nostri cuori. La speranza e l’auspicio è che nulla venga vanificato di quanto stiamo vivendo e sperimentando, ma che si colga l’opportunità, una volta usciti dall’emergenza, di guardare la realtà con occhi nuovi, di avere il coraggio di operare delle scelte di sostanza che guardino al bene della collettività e non del singolo per migliore la vita futura e quella delle future generazioni. 

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