Da giovani non ci si pensa, ma col passare degli anni ci si rende conto di quante tradizioni, aneddoti, abitudini di vita quotidiana, eventi familiari e del paese del passato vorremmo sapere, ma non abbiamo più i nonni e né i genitori vicini a cui chiedere. Ganci che da ieri ci insegnerebbero ad affrontare con maggior consapevolezza l’oggi. Ecco dunque che in questi giorni di commemorazione dei defunti, la mancanza dei familiari scomparsi si fa più pesante e vorremmo, almeno per poco, riaverli accanto e rivolgere loro quelle tantissime domande rimaste senza risposta. In periodi economicamente difficili come questo, sentire dagli anziani qual era il loro tenore di vita, ci farebbe ridimensionare i nostri malumori. Quel che sorprende, dai racconti letti o riferiti, è la capacità di superare le ristrettezze economiche, la poca libertà, la fatica enorme per lavori manuali pesanti, ecc.., che i nostri genitori e nonni affrontavano senza troppe lamentele, ma con tanti sacrifici e dignità. I loro supporti morali erano fede, umiltà, ironia, inventiva, trovando in innocenti passatempi quella spensieratezza indispensabile per accettare condizioni veramente dure. I figli venivano mandati già da piccoli a lavorare; così le ragazze, che avevano pochi diritti e molti doveri, rispetto ai maschi: un’infanzia davvero breve! Svaghi dopo il lavoro pochi, sia per i ragazzi che per gli adulti. Dai primi freddi autunnali per chi abitava in campagna l’appuntamento serale era in stalla, sia per scaldarsi, che per fare filòss. Uomini che chiacchieravano, donne che cucivano o sferruzzavano, bambini che ascoltavano storie raccontate dai nonni e giovani che escogitavano giochi simpatici per divertimenti che stemperassero un po’ le responsabilità lavorative e familiari. Una signora anziana, facendomi un breve riassunto della sua vita, mi ha fatto riflettere ancora una volta sulle enormi differenze di vita tra la sua generazione e la mia, simili a quelle che mi raccontava mia mamma. Famiglia numerosa, il papà che lavorava per molte ore e, dopo il lavoro, andando al Chiese a raccogliere pietre e sabbia, costruiva la sua casa. Nel caso della signora il papà si era ammalato gravemente, pertanto a 13 anni la mamma fu costretta a mandarla a lavorare, sottopagata e trattata male col ricatto del licenziamento, per contribuire al bilancio familiare, come molte altre coetanee. La sera, ricamando la dote, sognavano il matrimonio, che spesso poi si rivelava di gran lunga meno sereno di come lo avevano immaginato. Ecco dunque che, in un quadro tutt’altro che appagante, giochi e burle all’apparenza banali e ingenui, erano divertimenti spassosi e, senza retorica, decisamente più sani di quelli attuali. Il pedrös, per esempio: al ragazzo più sempliciotto presente in stalla veniva chiesto di andare in compagnia del gruppetto di amici a cercare il pedrös, un “animale”non ben definito che viveva nei fossi, da catturare per poter vender poi la sua pelle pregiata. Il poveretto usciva insieme agli altri, che ad un certo punto lo lasciavano solo, dicendogli che andavano sull’altra sponda del fosso con un sacco nero per intrappolarlo. Quando il malcapitato capiva di essere stato ingannato, li rincorreva con la forca, tra sue imprecazioni e risate dei burloni. Un altro gioco da fare in stalla, più malizioso, era quello del söpèl (zoccolo). Si sedevano in cerchio alternando una ragazza e un ragazzo. Si faceva passare velocemente sotto ognuno lo zoccolo e, dato che allora le ragazze indossavano lunghi gonnelloni, era l’occasione per una veloce toccatina alle loro gambe. Se qualcuno riusciva a fermare lo zoccolo, per chi l’aveva passato in quel momento c’era una penitenza.  ORNELLA OLFI