A quasi tre anni dalla sua scomparsa, avvenuta a fine novembre 2022, Francesco Favagrossa continua a parlare della sua esperienza da soldato, come amava fare quando era in vita raccontando gli episodi della storia del Novecento che lo avevano visto protagonista. Lo fa attraverso un commovente diario ritrovato dall’amata figlia Milena, nel quale con una grafia elegante ma talvolta incerta sono stati fissati alcuni episodi importanti della sua partecipazione al Secondo Conflitto Mondiale ma soprattutto le emozioni, i sentimenti, le condizioni estreme che un giovane provava e in cui si trovava a vivere durante il conflitto. «Diario di Francesco Favagrossa – si legge nella prima pagina della semplice agenda a copertina blu – nato a Gardone Val Trompia il 3/3/1922» e il seguito è un susseguirsi cronologico di episodi e fatti condivisi con centinaia di ragazzi come lui, mandati in guerra senza sapere il perché e senza capirne i motivi. Dal lungo viaggio in treno dalla stazione di Brescia il 15 gennaio 1942 con destinazione Palermo per essere assegnato alla 5ª Compagnia come istruttore di scuola guida nel corpo degli Artiglieri, al trasferimento in Piemonte alla fine di novembre con destinazione Russia. «Mi diedero 20 lire come premio (qui Favagrossa segna un punto di domanda come se ancora si stesse interrogando sul valore di quel “premio”). Mangiavamo poco e niente, eravamo trasportati su carri bestiame e dormivamo sulla paglia anche sporca. La Vigilia di Natale il freddo era tremendo…Invece della Russia, pensarono bene di deviarci verso la Francia e fu una fortuna. Arrivai in un aeroporto che si chiamava Orange, lì trovai un ufficiale di Ghedi. Si chiamava Chitti Peppe e abitava in una cascina sulla strada per Calvisano. Se era in servizio, mi allungava sempre qualcosa da mangiare per il resto andavamo per i campi a cercare le patate marce che i contadini usavano come letame. Eravamo tutti pieni di pidocchi tanto che un mio compagno, a causa del corpo segnato a sangue dai graffi per il continuo grattarsi, si piegò alla visita militare. Gli venne dato un sapone disinfettante che non funzionava per niente. C’erano alcune donne italiane che seguivano il Reggimento e ci lavavano i panni: una di queste si rifiutò di lavarmi la divisa tanto era piena di pidocchi e dovetti farlo da solo, vi lascio pensare con quali risultati. Dalla Francia fui poi rimandato a Pontevico e poi di nuovo in Sicilia dove mi affidarono un camion che si vedeva già allora solo nei musei e che guidavo in stradine strettissime fra gente che mi guardava come se arrivassi da un altro pianeta, perché aveva visto a malapena solo carrettini. Erano generosi, però, mi offrivano da mangiare e mi aiutavano. Qui assistetti allo sbarco degli Alleati e con il mio camion, mentre portavo i materiali che mi erano stati affidati, fui colpito più volte dai bombardamenti ma riuscì a scamparla rimediando solo qualche buco nella cabina. Dopo lo sbarco, tutto era allo sbando: i miei compagni e il mio reggimento erano scomparsi, il traghetto per tornare nel continente bombardato. Restavano delle zattere che venivano spesso prese di mira dai bombardieri. Mettevamo in Tricolore su di un palo perché ci distinguessero dai Tedeschi e non ci colpissero…» Con l’immagine di quel Tricolore che sventola quale simbolo di amore e difesa si interrompe bruscamente il piccolo diario di Favagrossa. Un documento di certo frammentario ma prezioso ed eccezionale perché racconta la vita reale di quei tragici momenti raccontati da un ragazzo a chi legge e non può nemmeno immaginarli e perché, nel suo piccolo, resta un monito contro la guerra fatta di sofferenze immani e assurde fatalità. 

Marzia Borzi