Nell’ambito del percorso di educazione civica incentrato sull’analisi del fenomeno mafioso, abbiamo avuto l’opportunità di incontrare on line la signora Liliana Iannì, figlia di Carmelo, vittima innocente di mafia.

Carmelo Iannì nacque nel 1934 a Palermo, era sposato e padre di tre figlie: Liliana, Roberta e Monica. Gestiva l’albergo Riva Smeralda, a Villagrazia di Carini che cercava di rendere più vivo e attivo organizzando iniziative che evidenziassero la bellezza della sua terra anche agli occhi di tutti quei turisti che alloggiavano nella sua struttura e che venivano da lontano.

Proprio qui decisero di fermarsi, nell’agosto del 1980, dei chimici marsigliesi giunti in Sicilia per aiutare Cosa Nostra nella raffinazione della droga. Per poterli tenere d’occhio, la polizia chiese a Iannì il permesso di infiltrare alcuni suoi uomini nel personale de-l’albergo e lui accettò la richiesta, all’insaputa di tutta la famiglia.

Dopo qualche giorno di indagini, la polizia italiana, in collaborazione con quella francese, organizzò il blitz che portò all’arresto del boss Gerlando Alberti oltre al “dottor morte” André Bousquet e a due chimici marsigliesi.

Nel corso dell’azione i poliziotti erano a volto scoperto e furono riconosciuti. Il boss Alberti ordinò che la sua cattura fosse vendicata con l’uccisione di Carmelo Iannì che avvenne, per mano di due giovani sicari il 26 agosto 1980.

Durante il confronto abbiamo posto qualche domanda alla signora Iannì che ci ha risposto approfondendo vari concetti, alcuni dei quali ci hanno veramente colpito.

Il primo tra questi riguarda quella che oggi chiamiamo macchina del fango: diverse testate giornalistiche inizialmente collegarono la motivazione dell’uccisione di Carmelo al suo presunto coinvol-gimento con la mafia o ad un eventuale vicenda che riguardasse altre fantomatiche donne.

Noi crediamo che il suo comportamento sia da apprezzare in modo particolare poiché contrapporsi all’organiz-zazione mafiosa e porsi dalla parte dello Stato, era un gesto inusuale per quei tempi.

Un altro tema che la signora ha toccato è stato quello del perdono: lo ha definito una “bella parola” molto complicata però da mettere in pratica, soprattutto in circostanze eccezionali, che ti cambiano radicalmente la vita. Ci ha confessato di non essere riuscita a perdonare, ma di aver compiuto un percorso di formazione, anche con la polizia, attraverso il quale è riuscita ad accettare la situazione anche valorizzando il comportamento di suo padre, un uomo che si opponeva alle ingiustizie e che agiva per la legalità, un valore che ha tramandato alle sue figlie.

Liliana ha voluto concludere con un messaggio davvero significativo: ci ha invitato a costruire la nostra vita sulla base degli esempi positivi che abbiamo, a fondarla su ideali a cui rimanere fedeli, ma soprattutto a guardare alla realtà secondo un “pensiero col-lettivo” che è quello, unicamente, che può davvero far cambiare le cose portandoci a intendere il rispetto delle regole non come obbligo, ma come un nostro dovere in quanto parte di una comunità.

Safae Ajjani, Franka Frroku, Gloria Vitali e

Cristina Zuanon, 4^ A LES