Fare il pane, quello buono come una volta, è vita: ci vuole tempo, ci vuole amore per le cose semplici e fatte con cura, ci vuole dedizione per il lavoro, ci vuole fiducia in un futuro sano e capacità di fare squadra.

Il pane insegna il senso della famiglia, non c’è tavola apparecchiata senza un pezzo di pane, è uno degli alimenti che per primo un bambino sperimenta e una delle prime parole che impara a pronunciare. Spezzare è un gesto di condivisione, offrirlo è un gesto di speranza, sprecarlo è un gesto insensato.

Produrre il pane è rituale che si ripete da millenni. 

Da oltre cento anni il fornaio artigiano utilizza principalmente la pasta madre (con lievito madre) come base per la preparazione di un prodotto dai sapori e profumi caratteristici, altamente digeribile e durevole nel tempo. Uno dei periodi storici più traumatici che la società ha dovuto affrontare è stata la Seconda Guerra Mondiale.

Non cambiò solo le vite dei soldati al fronte ma influì su tutti gli aspetti della vita civile. Le nazioni belligeranti dovettero ben presto intervenire sul libero mercato interno cercando di razionare le risorse alimentari e la prima a risentirne fu la popolazione.  

Il governo, per ridurre gli sprechi ed intervenire sulla distribuzione di tutti i prodotti in commercio, introdusse una tessera io carta annonaria: pasta, farina, olio, sale, tutto fu tesserato perfino e soprattutto il pane che era l’ali-mento principale di tutte le famiglie.

Ma come funzionava questa tessera? Era un foglio nominativo con tanti tagliandi numerati uno per settimana o giorno distinto per genere alimentare.  

Le botteghe e le rivendite del pane degli anni ’40 erano arredate con banconi in noce, le scaffalature in legno e i cesti in vimini intrecciato, il panettiere/a tutto vestito di bianco con il caratteristico cappello e il profumo del pane appena sfornato completavano l’ambiente.

Non c’era bisogno di insegne, bastava seguire l’aroma che inondava la via e ti trovavi davanti alla bottega del fornaio. Mi ricordo che a Manerbio c’era una forneria o rivendita di pane in quasi tutte le vie: le sorelle Cattina in via Piave, Soretti in via XX Settembre, Soretti in via Roma, Conti ex Montini in via Dante, Viscardi Primo in via S.M. Del Carso, Maria Viscardi in via Duca d’Aosta, Goldani in via San Martino, la cooperativa in via Dante e oggi trasferita in via Papa Giovanni XXIII, i fratelli Carlotti in via XX Settembre, Vittorio Bonometti in via Martiri della Libertà, Fiore Filippini, Ceco Pane in via Palestro, Gino Cirimbelli in Vicolo Pendente, Dencio Fadani in via Cavour, Dina Preti in via Solferino, la Cooperativa Ville Marzotto, Giuseppe Viviana nel Villaggio Marcolini, Bepi Mantovani in via San Martino, Rossi Agostino al Villaggio Fanfani. Alcune di queste sono ancora in attività. Chiedi scuse se ne ho dimenticate alcune poiché è facile alla mia età. 

In froneria si andava tutti a fare la spesa e si instaurava un rapporto di amicizia se poi trovavi uno come Bepi Mantoa e suo figlio Francesco allora era uno spasso. Bepi era un tipo alto, elegante, allegro, sorridente, sempre pronto alle battute e a sfruttare tutti gli episodi per fare sfottò e per ricamarci sopra. 

Questa ve la voglio proprio raccontare.

La forneria era di fronte alla chiesa e anche senza volerlo si vedeva chi entrava per la messa e chi usciva. C’erano due amiche che tutte le mattine andavano alla prima messa alle sei e all’uscita si fermavano sul sagrato a fare due chiacchiere e Bepi dentro di sé si domandava: “che cosa avranno da raccontarsi tutte le mattine?”. Le chiacchiere erano un po’ lunghette, erano le dieci e se la stavano ancora dire.

Cosa inventa Bepi?

Di fronte alla chiesa c’era l’osteria di Laurina (c’è ancora) e Bepi andò a chiedere in prestito due sedie e ordinò due bicchieri d’acqua e portò il, tutto alle signore dicendo: “sedetevi perché sarete stanche e bevete un goccio di acqua perché non vorrei che perdeste la favella”.

Siccome le conosceva bene, perché erano due clienti, la risposta di uno fu: “Bepi, brot vilanc, sa pol mia fa do parole tra amiche?” (Bepi, brutto villano, non si può fare due parole tra amiche?). L’altra dice all’amica: “Dai andiamo via e domani ti racconterò il resto, ti raccomando, che rimanga fra noi quello che ti ho detto”. L’altra soggiunge: “non preoccuparti, io sono muta come una “tromba” (che stava per “tomba”)”.

La cosa finì in una colossale risata e per un po’ di tempo quando le persone si davano appuntamento esclamavano: “Mi raccomando di non fare come quelle della prima messa”. 

Francesco tutte le mattine con la cesta, alle dieci, nel momento della ricreazione davanti alla scuole vendeva le brioches e si vantava o faceva battute al bar con gli amici sulla bontà o genuinità delle sue pagnuchine e così ebbe il soprannome di “pagnu-chino sexi”

Fortunatamente era un ragazzo di spirito, stava alle batture e accettò il soprannome.  

Piero Viviani