Egregio Direttore,

noi anziani abbiamo sempre più il sentore che stia scomparendo l’uso del dialetto bresciano. Tradizionalmente, ognuno di noi è orgoglioso della nostra parlata, additata altrove come dura, ostica, dai suoni contrastanti, ma questo senso di appartenenza linguistica si sta affievolendo sempre più, particolarmente nei ragazzi. Pochi giovani la parlano, anche se la conoscono, magari solo per inserire nel discorso frasi ad effetto, oltre alle parolacce che in dialetto vengono particolarmente bene. Mentre gli anziani formano lo zoccolo duro di quanti praticano questa lingua madre bresciana, la maggioranza degli adulti un po’ la trascura, snobbandola e considerandola a volte espressione volgare. Tra coloro che hanno considerato la lingua bresciana addirittura “barbarissima” ci fu perfino Dante Alighieri, secondo gli studiosi. Senza scomodare il divino poeta, non possiamo certo dimenticare il “Cantore di Manerbio”, il nostro Memo Bortolozzi che con le sue poesie ha saputo raggiungere le vette più alte nel rappresentare dal vivo la vita quotidiana, le contraddizioni della gente comune, contro il perbenismo dei più, con la sua vena dissacrante. In tutto quello che faceva lui era un po’ artista, di un’ironia spinta e acuto fino all’estremo, ma anche persona squisita e vera. Il dialetto manerbiese è rinato con lui, abbandonando gli arcaismi, ma dettando anche con altri poeti bresciani molte delle regole ortografiche ormai accettate da tutti i poeti in vernacolo. Il Memo ci manca, sia come amico che come poeta ed autore di opere teatrali, proprio lui che aveva fatto del suo dialetto originale uno strumento per migliorare la vita della comunità, aiutandola a crescere, spronandola a superare le disuguaglianze e ad affermare i diritti individuali e collettivi. Il tutto condito con quell’aria un po’ anarchica che lo caratterizzava e che lo rendeva unico. Il dialetto vive anche di tutto questo e nessuno pretende che lo si usi sempre, ma è un peccato lasciarlo perdere, proprio perché in esso vi è tutto il folklore nostrano e la trasmissione delle memorie della nostra terra concentrati, senza contare le pillole di saggezza di tanti termini o il buon senso di innumerevoli modi di dire. Dobbiamo resistere alla cancellazione della nostra parlata locale, cercando di non buttare alle ortiche tutto quello che i nostri avi ci hanno tramandato. Forse, trasformata in essenziale, la lingua bresciana diventerà linguaggio di nicchia, ma non morirà, il dialetto c’è e resterà. I giovani del resto usano sempre meno il dialogo, anche in italiano. Perfino al telefono parlano sempre più di rado, quando invece per comunicare con parenti, amici, fidanzate, si impegnano nelle chat, tagliando i termini o a volte storpiandoli. Il nostro dialetto, da parte sua, viaggia senza intoppi e rimane sempre uguale, con i suoi gnèc…gnàc…gnòc…: “Se ‘l sìe ignÌe gnàc, e se ignìe sìe gnèc”. Come si farebbe, per esempio, ad esprimere sensi di rassegnazione, di smarrimento o di meraviglia, senza la parola “pòta”? Tutti conoscono questo termine, spesso pronunciato isolato o preceduto da “Ah…!”, oppure seguito da “Ma…!”, ma pochi ne conoscono l’origine. Secondo gli esperti sembra derivi dal latino, nel senso di un invito a “berci sopra”, a “lasciar perdere”. Non è quindi volgare come l’analoga ed identica “pota” toscana, ed invece rimane pronunciabile da tutti noi: uomini, donne e bambini.

Luigi Andoni