“Istoria e diario dell’innesto del vajuolo” s’intitola così il libro stampato a Brescia nel 1769 e scritto dal medico rovatese Giovan Francesco Guadagni. Il nostro non era certo l’unico del suo tempo a praticare la cosiddetta “vaiolizzazione” che, è da sottolineare, è una pratica diversa dal vaccino che sarà ipotizzato e sperimentato da Edward Jenner nel 1796. Tuttavia considerando che la scoperta del vaccino di Jenner sarebbe avvenuta decenni dopo, e che l’obbligo a vaccinarsi contro il vaiolo sarebbe stato introdotto in Italia solamente nel 1888, ci dice sia quanto il Guadagni fosse tra i pionieri della materia sia quanto è stato difficile far accettare alla popolazione una pratica come quella del vaccino.

La vaiolizzazione è sicuramente un metodo pericoloso che consiste nel prelevare alcune pustole di un paziente in via di guarigione e porle a contatto con una leggera abrasione praticata su un braccio del soggetto da immunizzare. Se praticata «il vaiuolo diventa un mal da biacca, una vera ciancia, quando venga innestato da un medico savio» scrive la “Frusta Letteraria” a metà ‘700.

Lo stesso tipo di osservazione portò Jenner a intuire che il vaiolo dei bovini (vaiolo vaccino) poteva essere usato allo stesso modo. Le vacche sviluppavano le pustole anche sulle mammelle che, nell’azione della mungitura manuale, finivano per colpire i contadini con quella forma molto prossima al vaiolo umano ma, come osservato dai medici, meno pericolosa e mortale.

La pratica era semplicemente frutto dell’osservazione di più persone in un lunghissimo periodo di tempo. Una cultura quasi popolare affinata dalla scienza, potremo dire. È noto infatti quel che la gente comune faceva nei tempi precedenti. Quando un parente veniva colpito da vaiolo, passata la fase acuta e giunti sulla via della guarigione, spesso si lasciava i propri figli a dormire una notte nella stanza col malato.

La vaiolizzazione in realtà era una pratica antichissima. Sappiamo che in Cina è documentata almeno dal XVI sec. anche se consisteva nel polverizzare le pustole ed inalarle. Pratica che fu giudicata troppo pericolosa dai medici europei che constatarono un numero maggiore di decessi rispetto alla pratica cosiddetta “circassa”, perché sviluppata nell’ambiente caucasico e praticata dai turchi almeno dal XVII sec.

Nonostante l’antichità di queste pratiche, in Italia la prima testimonianza di vaiolizzazione è del 1718, ma fino alla seconda metà del ‘700 faticò ad imporsi. Anche perché frutto di conoscenze turco-islamiche che prima di essere introdotte in Italia erano diventate di moda in paesi protestanti come l’Inghilterra e le colonie americane. Insomma, la solita diffidenza verso ciò che è forestiero e per giunta proveniente dalle terre degli infedeli, non poteva trovare fortuna tanto facilmente.

Si aggiunga che la pratica non era priva di rischi. Si poteva morire. E questo poneva anche dei quesiti morali sulla liceità di una tale pratica. Tuttavia la necessità era talmente forte da spingere le autorità a metterla in pratica e le persone a farsi variolizzare. Un esempio noto è accaduto a Boston nel 1721, quando durante un’epidemia di vaiolo che aveva colpito l’area, si sottoposero al trattamento molte persone. Il 2,5% di esse morirono … tuttavia la mortalità di coloro che non si erano sottoposti alla variolizzazione saliva al 14%. Un mero gioco aritmetico che spinse le colonie americane ad adottare il sistema.

Nel suo libro il nostro Guadagni descrisse con dovizia di particolari alcune inoculazioni eseguite a Brescia su piccoli pazienti. Il primo inoculato «Faustino, d’anni otto, mesi nove, di temperamento sanguigno, biondo, franco, determinato» reagì benissimo, restando “allegro” durante tutto il periodo di osservazione. I rapporti servivano a fornire dati ai colleghi medici, a mostrare alle autorità la propria efficienza, ma anche a rassicurare il pubblico circa la sicurezza della variolizzazione.

Alberto Fossadri