Comandava la stazione dei Carabinieri per il territorio Cologne – Coccaglio con il grado di brigadiere quando eravamo nell’anno 1948. Si chiamava Augusto Garzola, leccese, di Alessano, dove era nato nel 1917.
Periodo bruttissimo quello. Delinquenza che imperversava: rapine, omicidi; di tutto un po’. Meno evidenti e di numero dov’era iI comandante Augusto; dal cipiglio duro, contrario alle mezze misure nel servizio d’ordine. La sua conosciuta severità era temuta innanzitutto dai malavitosi, eccome!
A Coccaglio il culmine della drammaticità a metà settembre del 1948, in via San Rocco, quando il brigadiere Garzola si scontrò con un giovane conosciuto nella borgata come G.R. Questi era ritenuto pericoloso e forse violento, uso alle armi.
L’impatto verbale dapprima, ebbe fase cruenta poi. Finché “PUM!”, il comandante Augusto aveva sparato ed il giovanotto cadde a terra stecchito. Si disse e scrisse che nella mano tenesse una rivoltella. Da quel momento “Ei fu” se di lui si parlava, il suo nome era preceduto da “El poer…”. Pochi forse lo piansero, forse molti a voce più o meno bassa, dicevano: “Era ura…”, dimenticata La pietà per i morti. La magistratura sentenziò: “Legittima difesa” e archiviò.
Il gravissimo fatto fece eco e, come per incanto, nei due paesi dove il Garzola era responsabile dell’ordine pubblico, la delinquenza diminuì ancora. Rovato, in quel periodo storico, navigava malissimo nella materia specifica: non era più quel paesone pacioso, ricco del suo mercato e della prospera agricoltura, con sei o sette ladri di galline a diversificare. No, nella nuova società si era insinuato l’odio ad iniziare dalle diversità politiche sorte dopo la fine della guerra e poi, via via, in altri scomparti sempre peggiorando.
Naturalmente nella parte minima, sia ben chiaro. Gli scontri tra una zona e l’altra del capoluogo aumentavano di numero e nella sostanza: botte da orbi con randelli, piccole armi da punta e da taglio e, se le nocche delle mani non bastavano più, per fare male si erano inventati coprirle con il metallo. Per il dottor Angelo Bardelli, direttore dell’ospedale Ettore Spalenza, il lavoro di cucitura e medicazione delle ferite era centuplicato. Ai parenti ansiosi che accompagnavano i malcapitati feriti nelle beghe, seraficamente rispondeva: “…beh, vedrem…guardem… vedrem…”. Poi, siccome nessun freno ai violenti sembrava funzionare, lo strapiù della cittadinanza paventò il peggio ancora da venire. Fu così purtroppo!
Un giovane, seppur ben piazzato e di fisico muscoloso, fu trovato morto in mezzo alla strada: ucciso a bastonate. Mai più si scoprirono gli assassini. Il 20 novembre del 1949, in via Passeggi, 3 (ora via Spalto Don Minzoni), nell’immobile occupato della famiglia dell’avvocato Aldo Bonati, dove teneva studio legale, sentirono rumori sospetti al piano terra dove il portoncino d’ingresso è ancora oggi da vedersi. L’avvocato scese con a fianco la moglie Adelaide e le figlie Sonia e Beatrice. Riscontrano la porta spalancata e, al centro di quel vano d’ingresso, un focherello su un involucro, forse uno zainetto.
Fu naturale l’istinto che lo spinse allo spegnimento; inaspettato il dramma che ne conseguì: un boato squarciò Il silenzio della notte uggiosa novembrina.
Si disse che l’interno di quel fagotto contenesse alcune bombe a mano, sicuramente alto esplosivo. L’avvocato morì sul colpo dilaniato da una miriade di schegge; la moglie fu ferita permanentemente ad un occhio, ferite anche le figlie, seppur in modo meno grave.
Neanche stavolta la giustizia, nei suoi rappresentanti, scoprì i colpevoli ed ai rovatesi non rimase che chiedersi perché tante, tante bestialità: “…dove sono quelli che ci devono garanzie?”, pensavano tutti.
E con quest’ultimo fattaccio si cominciò a desiderare fortemente la venuta a Rovato del brigadiere Augusto Garzola che era ancora di istanza a Cologne. Tanto si fece (forse) finché da noi arrivò a prendere il comando della stazione Carabinieri l’1 febbraio 1951 che, a quei tempi, aveva sede in via Passeggi 5, angolo via Visnardo (oggi via Verdi). E subito, in bella vista, si mise al lavoro: carnagione olivastra scura, baffetti di mezzo centimetro sovrastanti tutto il labbro superiore, piccolo sfregio sulla guancia, sguardo penetrante. Molto educato con gli interlocutori, ma il distacco con tutti ci stava sempre, con evidenza. Una figura emblematica migliore non era facile incontrarla nelle forze dell’ordine. Ai rovatesi piacque tanto fin dal primo impatto. Ancor di più quando scoprirono il suo modo di lavorare. Per esempio ogni sera quando buio, come i pipistrelli usciva dalla caserma solo, accompagnato da un cane pastore tedesco di nome Astro, tenuto al guinzaglio quando lui, il comandante Augusto, pedalava cavalcioni la bicicletta. In ogni dove il duo uomo-cane compariva silenzioso anche dove mancava l’illuminazione. Nelle ore notturne, soprattutto, teneva sempre l’arma mitra a tracolla penzoloni sul petto.
Proprio in quelle ore dedicate al riposo cominciarono i guai per chi invece le preferiva al disturbo della quiete pubblica. Cominciarono i primi arresti: lui, o loro, davanti, a piedi, seguiti dal tutore dell’ordine. Nel frattempo fu promosso a maresciallo capo. Arrivati alla caserma dei Carabinieri, l’identificazione e poi a seguire denuncia per ubriachezza, per il disturbo, atti contrari alla pubblica decenza, bestemmie e quant’altro; in camera di sicurezza in stato d’arresto se previsto, al carcere mandamentale quando l’arresto era convalidato. Quest’ultimo luogo di pena era sito in via Lamarmora. Seguivano poi decreti penali con sanzioni previsti dalle leggi violate. Un gran lavoro, dunque, sia per gli uomini dell’Arma che per pretore, cancelliere e impiegato. Fu così che poco tempo dopo il bullismo scemò vistosamente. Neanche ai romantici menestrelli innamorati fu concesso cantare di notte alle fanciulle “Firenze stanotte sei bella sotto il manto di stelle…”, tanto era il timore di trovarti accanto improvvisamente l’uomo e la bestia di nome Astro. Al chiaro del giorno sparirono quasi del tutto gli scazzottamenti nelle strade; bestemmiare in pubblico non solo era peccato per i credenti, ma significava reato per il codice penale, era punito con sanzioni pecuniarie. Nei mesi a seguire la prima rapina ad una banca a Rovato; poche ore dopo i tre malviventi furono catturati a Clusane e portati in cella in loco. Dai e dai, l’ordine pubblico tornò a Rovato. Poco importava se sotto le braci covasse ancora il fuoco insito nel bullo e nel malintenzionato, la “paciosità” era manifesta e da godere. “Che bello!” Essì che il comandante Augusto non era laureato in psicologia, assolutamente no, taumaturgo men che meno, avrà loro usato modi sicuramente convincenti che noi non conosciamo affatto, ma che comunque arrivarono allo scopo del risultato. E poi, e poi… un anno e mezzo dopo il patatrac, come capitò alla rottura del vaso di Pandora, uscì il male, il peggio la brutta pagina. Come nel “Sogno di mezza estate” il meglio ebbe termine nel periodo ferragostano del 1952. Davanti a me copia del Giornale di Brescia del 18 agosto di quell’anno, dove si leggeva: “Tragica necessità o sfortunata circostanza? Ucciso con il mitra da un maresciallo!”.
Una pagina intera per capire poco o niente. Stride la vampa, tante faville nella cronaca, una sola realtà: il comandante Augusto ancora una volta ha fatto “PUM!”, con l’arma in dotazione, anche stavolta un solo colpo nel tenue chiarore del mattino, e un ciclista che non si era fermato all’alt impostogli venne colpito, stramazzando a terra in un mistume di sangue e di grappa. Sì, era un venditore abusivo di grappa.
L’infelice si chiamava G.B., di anni 35, sposato e padre di tre bambini, risiedeva a Paratico. Come tanti altri di Foresto Sparso, Viadanica e paesi di zona, arrivava da noi per vendere tale liquore sempre contenuto in camere d’aria. Portato velocemente all’ospedale di Rovato, non sopravvisse alla grave ferita e ad un fianco; morì tre giorni dopo. Costernazione da noi, ancor più al suo paese.
Molto meglio del giornale mi racconta uno dei militari che quella notte stava in servizio in quel posto, in via San Giorgio, pertanto testimone della tragedia. Un carissimo amico fino all’anno 1956 quando fu trasferito altrove. Saputo che ancora stavo in vita venne a trovarmi nell’ultimo mese di agosto: “61 anni dopo quanto è stato bello rivedere il carabiniere Palmerini, ciociaro di Cassino!”. Con l’occasione portai il discorso sulla tragedia che sto raccontando scrivendo. Lui ancora sgomento, ma racconta, racconta… io sintetizzo. “Tarcisio, mi disse, credimi, fu una vera fatalità, un colpo solo nel semibuio, da una distanza di 70 m.! Credimi!”; “Certo che ti credo, amico ciociaro…. ma nello stesso tempo mi sovviene che giusto 4 anni prima a Coccaglio, PUM! un solo colpo bastò a G.R. per rimanere secco. Anche se enorme è la diversità dei fatti e delle persone, un muro li divide anche se poi dopo tanti anni li vogliamo unire nella Pax Domini. Ma due persone uccise in 4 anni non sono tante?”.
Il maresciallo Augusto Garzola, due mesi dopo la tragedia, fu trasferito a Isola della Scala (Vr), molto meno augusteo nella buona fama. Finì la carriera di lavoro presso il “Centro Euratom” di Ispra. Non mi è dato di sapere quale fu il giudizio della magistratura in merito gli accadimenti raccontati. Al tirar delle somme, in quella disgraziata notte di mezza estate: Rovato perse un tutore dell’ordine di spessore, Paratico un cittadino laborioso ed onesto che mi rifiuto di definire contrabbandiere, viste le circostanze. Una famiglia distrutta: una moglie vedova e tre bambini orfani con un orizzonte di vita nel buio totale.
Nessun commento, nessuna valutazione da parte mia; per le considerazioni ed i giudizi lascio libertà di pensiero al lettore.
Il fu Augusto Garzola ha lasciato questa terra il 15 maggio 1998 ed i suoi mortali resti riposano in un cimitero del varesotto.
Tarcisio Mombelli
Trascrizione ed adattamento a cura di Emanuele Lopez