Negli anni subito dopo la guerra, dal 1945 in poi, anche nel nostro paese, come in altre parti d’Italia, c’era povertà, miseria, disoccupazione, riuscivano a cavarsela principalmente le famiglie ricche o contadine poiché la campagna, bene o male, con i suoi frutti, aiutava questa gente a vivere. Per gli altri invece era dura, molto dura; bisognava escogitare ogni tipo di espediente o sfruttare alcune occasioni per mettere in tavola qualcosa di diverso da mangiare oltre al minestrone, alle patate e alle cicorie.

Un sistema originale per cavarsela era la pesca nella roggia Fusia. Ci si teneva informati quando la seriola veniva svuotata per l’annuale pulizia del fondale. Qualche giorno prima si mettevano delle fascine di legna legate a dei sassi nell’acqua in modo che i pesciolini vi entrassero e, man mano che l’acqua si abbassava, rimanessero imprigionati; poi si facevano delle chiuse di fango in modo che il pesce rimanesse imprigionato nello sbarramento fatto. L’acqua rimasta veniva tolta con dei secchi; i pesciolini, le bose, i vaironi, le tinche, le anguille, si prendevano con il mestolo forato. Così facendo si otteneva un fritto misto che andava ad allietare le magre mense di allora. In quel caso, per evitare litigi, una regola importante era questa: ogni famiglia che abitava in corrispondenza della seriola pescava nel tratto che confinava con la sua proprietà, senza invadere il pezzo degli altri. Nel fosso Carera, proprio nel tratto che imbocca la seriola, vi era acqua ferma ma limpidissima, che dava la possibilità di vedere e di pescare con la canna, tuttavia, i pesci più grossi si nascondevano nei buchi del terreno e nel fango; in questo caso era una pesca più impegnativa ma più fruttuosa. Un’altra forma di pesca nella Carera era quella delle rane. ll mio amico Berto era specializzato; la pesca si faceva in primavera con una canna, una grossa ancorina e, sopra gli ami, dei fiori di fagiolo o delle mosche che l’amico Berto mi faceva prendere. La Carera era piena di rane e, quando vedevano l’esca ballare davanti ai loro occhi, si lanciavano per mangiarla.

L’amico Berto, abilissimo, dava un colpo e “Zac!”, le infilzava, le metteva in una “töla” di latta con il coperchio, per non farle scappare. Il mio compito invece era quello di staccarle e metterle al sicuro. Anche questo era un piatto speciale che allietava le mense dei poveri. Un altro modo per sfamarsi nei mesi invernali era la cattura degli uccellini. Dopo una nevicata si mettevano nei campi e negli orti delle trappoline a molla chiamate “sep” e si coprivano con la neve; ci si metteva intorno come richiamo del fieno in polvere detto “biom dè fe” e, nella trappola, un grano di frumento o di pane. Quando l’uccellino la toccava, la molla scattava e così rimaneva intrappolato. Alle feste natalizie si poteva così mangiare polenta e uccelli. I ragazzi di oggi che leggeranno questo articolo non devono stupirsi: erano momenti di povertà e di miseria, la guerra purtroppo aveva lasciato il segno. Un pollo in tavola era una vera fortuna, altro che scartare zampe, collo e ali; perfino le budella venivano cucinate per fare il “pucì”, una specie di intingolo comunque molto buono. C’era anche un’altra usanza: quella di ammazzare un bel gattone, metterlo a frollare in mezzo alla neve per quindici giorni e poi cucinarlo con il salmì.

In quel periodo anche le lumache erano il piatto dei poveri. Si andava per lumache sul monte la sera con delle lampade a carburo. Dopo il temporale, quando se ne trovavano poche, si mettevano in una gabbia di uccellini; queste si chiudevano nel guscio e così si conservavano fino alla prossima raccolta.

Anni di povertà dunque, ma il monte era di aiuto, dava la legna per l’inverno, si andava per “soc” e “taparei” che erano poi radici di piante secche; attenzione però perché anche allora c’erano i controlli e la legna non doveva essere verde. Tuttavia nessuno aveva interesse perché non bruciava bene ed era pesante anche da portare. Dal monte si raccoglieva anche l’erba secca detta “paianò” che serviva per le stalle per preparare il letto agli animali.

Sempre in quel periodo, cominciarono a girare i primi ambulanti che vendevano la polvere di marmo che serviva per lavare le pentole; al loro arrivo gridavano per le strade: “polverinaaa!!!”. Il venditore più caratteristico era il contrabbandiere di grappa e anice; sotto il mantellone aveva una tracolla con due pezzi di camera d’aria piene, chiuse da una parte con un legaccio e, dall’altra, con una imboccatura realizzata con canna di bambù e chiuso all’estremità con un tappo. Nonostante venissero nascoste, al loro passaggio, lasciavano sempre un odore di grappa. Giravano anche i primi gelatai con il carrettino a triciclo a pedali, con la scritta “Da Bari gelati”, oppure “Gelati Piave”.

E perché non ricordare il buon straccivendolo Beniamino che girava a raccoglier gli stracci, pelli di coniglio, carta, ferro, ecc. Per la verità questa attività fu intrapresa anche da altre persone. Di divertimenti ve n’erano pochi: si ballava al crocevia; c’erano poi due cinema, il “Cinema Pasini” e l’altro “Don Bosco” e d’estate si proiettava all’aperto all’inizio di via Gerolamo Calca, dato che le sedie erano poche e ci si sedeva per terra. Con le famiglie e con gli amici ci si trovava nelle stalle a giocare a tombola, così si stava al caldo. Ogni tanto le donne si passavano una scatoletta contenente il tabacco e a qualcuna di loro rimaneva il naso nero perché ne aspirava molto con piacere. Gli uomini fumavano la pipa o il toscano e pure lo masticavano; quando perdeva il sapore, lo sputavano dicendo “cicà el bagol”.  Così si passavano i pomeriggi delle domeniche: qualcuno andava all’osteria “da Ernesta – vino buono” che aveva tanto di “bucaleò”, un mobile che conteneva tutto l’occorrente per il bere ed un moderno giradischi (detto “radiola”) dove si suonavano dischi a 78 giri per fare quattro salti. Gli uomini giocavano a carte o al gioco della morra, oppure uscivano in strada per giocare a bocce. Questo tipo di vita semplice e povera durò fino all’arrivo delle prime biciclette, dei motorini, delle vespe e delle auto “Topolino”.

È così che la moderna tecnologia stravolse poi le abitudini di vita di tutti gli italiani e sicuramente anche del mio amico Berto che smise così di pescare rane.

Carletto PedraliTrascrizione ed adattamento a cura di Emanuele Lopez