La nostra vita è fatta di compromessi, di aggiustamenti tra la dimensione del piacere e quella del dovere. Lo sbilanciamento può avvenire sia in un senso che in un altro. 

Quello che sento con più frequenza dalle persone è lo sbilanciamento rispetto ai doveri; una serie di “impo-sizioni” interne, di imperativi categorici che colpiscono l’autostima, ma soprattutto sottraggono energia positiva all’espre-sività, alla spontaneità e naturalezza (frasi del tipo “devo trovarmi un lavoro dignitoso”, “devo essere bravo”, “devo essere gentile con gli altri”, “devo assolutamente lavorare”, “devo avere una bella casa”…). 

Spesso questi “devo” non sono altro che il retaggio di un ambiente nel quale siamo vissuti molto normativo, dove probabilmente la dimensione del dovere ha prevalso su quella del piacere; dove ciò che importava non era tanto il fare per il piacere di fare, bensì mantenere una certa immagine che fosse la più adeguata alle aspettative altrui, in particolare delle figure di riferimento.  

Questi imperativi li abbiamo indossati come un abito, ce li siamo fatti andar bene perché forse questo era l’unico modo per soddisfare i loro bisogni e non i nostri, ma ad un’analisi più profonda la realtà è che spesso non corrispondono a quello che sentiamo e vogliamo.  

Quello che ne scaturisce è un dialogo interno inevitabilmente conflittuale tra i doveri (non nostri) da una parte e i bisogni personali genuini dall’altra, tra una parte che esige il rispetto di certe regole, obblighi, “morali”, culturali e sociali considerati “sacrosanti”, inviolabili, assoluti e un’altra parte che vorrebbe liberarsene perché sente tutto questo come un eccessivo fardello, un limite alla proprio desiderio di libertà e di spontaneità, sperimentando una serie di emozioni negative che vanno dalla frustrazione, dalla rabbia, alla tensione e ad un senso di colpa. In alcuni casi il dialogo interno si fa talmente serrato e si caratterizza per i contenuti fortemente critici, svalutanti la propria autostima, da trasferirsi sul piano somatico se la persona non è pienamente consapevole provocando dolori, tensioni, ansia, che vanno a localizzarsi in alcune parti del corpo.

Se non si interviene quanto prima per capirne l’origine psicologica di questi sintomi si corre il rischio di una loro cronicizzazione molto più complicata e duratura da gestire e da risolvere. 

Cosa fare quindi per gestire meglio questo dialogo interno, critico? 

Intanto rendersi conto della presenza di questa voce che ci sussurra che dovremmo essere ciò che non siamo o fare ciò che non vogliamo; questo è un primo passo sulla via della liberazione; in secondo luogo prestare attenzione alle ricadute sul piano emotivo, al disagio che ne scaturisce a livello di sensazioni fisiche; terzo, mettersi in ascolto della parte di noi che desidera, vuole, per se stessa e non per compiacere altri.

Infine essere più indulgenti con se stessi trasformando la voce interiore in una voce benevola, valorizzante il nostro essere e non squalificante, attraverso la messa in discussione di quei “prin-cipi” che abbiamo creduto assoluti e inviolabili ma che sentiamo limitanti. 

Liberarsene vuol significare poterli fare nostri e non più accettarli o subirli passivamente e inconsapevolmente; può voler dire decidere quali regole, norme, valori riteniamo oggi per noi importanti  da conservare e quali invece vogliano restituire  ad altri perché non ci appartengono più.

Non è un caso che la parola chiave di questo discorso sia racchiusa nella radice etimologica del termine “consape-volezza”, che sta ad indicarci la strada da seguire. 

Infatti non si tratta che di una scelta da operare, una divisione da fare tra ciò che non riteniamo ci appartenga e ciò di cui vogliamo riappropriarci per sentirci più liberi e presenti a noi stessi. 

Dott.Ettore Botti 

Presidente del Centro

per la famiglia