Che Manerbio abbia una storia millenaria non è un segreto. Fra le altre, ha conosciuto una “fase romana”: quella in cui ha preso il nome latino di “Minervium”, “santuario di Minerva”, da cui il nome attuale.

A questa epoca, è dedicato un capitolo dell’opera di Mons. Paolo Guerrini sulla nostra città: “Manerbio, la pieve e il comune” (Brescia 1936, Edizioni del Moretto).

In primis, dobbiamo ricordare che questa città sorge sulla “via cremonese” che univa Brescia a Roma.

Su di essa, si trovavano due ponti: quello sull’Oglio a Pontevico e quello sul Mella a Manerbio.

I ponti, oltre all’indubbia utilità come infrastrutture, avevano anche un alone sacro: il termine di “pontefice”, in latino, designava proprio un sacerdozio nato dalla usanza di consacrare i ponti.

Dalla loro presenza e da quella dei relativi santuari scaturivano i villaggi, nati come agglomerati di case intorno a questi luoghi. Ecco perché Manerbio porta il nome di una divinità.

Gli abitanti del “vico di Minerva” sono menzionati in tre lapidi bresciane, citate da T. Mommsen in “Inscri-ptiones urbis Brixiae et agri brixiani latinae” (Berlino, 1874, vol. II del “Museo Bresciano”, a cura del-l’Ateneo bresciano come estratto del “Corpus inscriptionum latinarum”). 

Si tratta di iscrizioni dedicate a personaggi che acquisirono benemerenze speciali verso gli antichi manerbiesi.

Il vero tesoro archeologico latino è però andato perduto. Nel 1715, cominciarono i lavori per la sostituzione della pieve medioevale romanica con quella che esiste tutt’oggi.

L’abbattimento della chiesa precedente portò alla luce due fosse sovrapposte, ricche di materiali antichi che furono reimpiegati per fabbricare la calce e per costruire il nuovo edificio.

La testimonianza di quei materiali archeologici è rimasta nella relazione scritta dal sacerdote manerbiese don Giacinto Tenchini, compresa nel codice 38 della raccolta Di-Rosa, custodita nella Biblioteca Queriniana.

La sua penna ricorda iscrizioni, piedistalli e statue di diverse dimensioni. In queste ultime, viene ravvisata l’immagine di un “idolo”: a volte vestito e con i suoi strumenti caratteristici, altre volte nudo. 

Anche sulle lapidi comparivano immagini parziali di esseri umani o “Deità”. Fra i materiali osservati, c’era anche marmo finissimo. Tra le figure divine, furono ravvisati Giove, Minerva, Mercurio, Giunone e Marte. Sulle statue e sulle cornici delle lapidi, vennero viste anche tracce d’oro.

Sembra incredibile che simili tesori d’archeologia fossero stati trasformati in calce e in materiali di riutilizzo; ma la preoccupazione dell’arci-prete di allora (don Bartolomeo Capitanio) era ben altra. Più interessato a dare una nuova pieve a Manerbio, non si curò di conservare le tracce del passato pagano. Quattro delle lapidi antiche, però, si salvarono: una rimase nella muraglia a mezzogiorno della sacrestia (per opera dello stesso don Tenchini); un’altra in una casa privata; altre due in un orto, come sedili. 

Furono donate al Museo Civico di Brescia, così come le altre sette iscrizioni latine manerbiesi raccolte dagli archeologi del Cinquecento.

Per quanto riguarda queste ultime, Mommsen cita – fra le altre – un’ara votiva a Ercole; un voto fatto a Minerva da una certa Cornelia Catulla; un titolo votivo alle “Giunoni”, le protettrici della maternità e della fertilità femminile; due are votive alle “Matrone”, simili alle suddette Giunoni (dato che propiziavano il parto felice). 

La ricchezza di materiali romani sul sito della pieve è spiegata da Mons. Guerrini col fatto che lì si trovasse l’antica necropoli pagana, testimoniata anche dalla iscrizione funebre dedicata ai due fratelli Ovidii (posta nella parete settentrionale della antica pieve di S. Lorenzo, dove c’era anche il cimitero cristiano). 

La sovrapposizione fra reperti latini e luoghi di culto cristiano sembrerebbe indicare una “continuità” fra la religione antica e quella successiva, che si pose come sostituto della precedente.

Erica Gazzoldi