Ma chi è il procacciatore d’affari?

E’ la figura professionale di chi esercita attività di intermediazione, incaricata di mettere in contatto due parti affinché queste concludano un affare. Ogni mediatore aveva il suo ramo, il suo settore. Trattavano di tutto, sia nelle fiere, nei mercati e nella vita quotidiana. Potevano essere chiamati a stimare ogni cosa: dagli animali agli attrezzi, dai patti ai bicchieri. Non solo intervenivano nella contrattazione in cui c’era da mettere d’accordo un acquirente con un venditore ma anche quando c’erano da fare delle stime di beni per divisioni tra fratelli oppure per un contadino che cambiava podere. C’erano quelli delle case, terreni, bestiame, macchine agricole, etc. Quando una persona doveva acquistare una cosa importante ricorreva alla figura del mediatore. Era una prassi, tant’è che a Manerbio ce n’erano parecchi.

Rico Panigari, Arturo Nasi, Tosini, Epis, Genio Geroldi, Vignaroli il bersagliere, Pierino Farina, Lorenzo Capra, Raimondi detto Piseti, Pini Giacomo, Gino Montani, Pierino Montani, Toni e Angeli Carlotti. Questo mestiere, da sempre presente nei mercati, si esercitava probabilmente anche prima della moneta, un ricordo indimenticabile: quando la domenica mattina si radunavano sulla strada tra la Torre Civica e piazza Italia; al culmine delle trattative era molto difficile transitare con un mezzo perché occupavano tutta la strada ed intenti nelle contrattazioni non c’era verso di farli spostare per far passare chi doveva transitare. 

Però, lasciatemelo dire, era bello ed anche spettacolare vedere quelle strette di mano che sancivano un contratto sulla parola. Che bei tempi, che sono ormai lontani e che non tornano più!

Una cosa che mi ha sempre colpito era il vestiario dei mediatori: il cappello era classico Borsalino con la falda alta o bassa, il gilet rigorosamente di velluto con una doppia grossa catena per l’orologio che per i più facoltosi era d’oro, il portafogli a fisarmonica, il fuolard intorno al collo. C’era anche un detto quando si metteva il foulard subito gli dicevano “ta someet un mediatur”. D’inverno indossavano la cremonesa, cappotto corto ricavato da uno lungo, che era quasi sempre di velluto color nero e quelli che trattavano le bestie si distinguevano con il classico bastoncino di bambù, quelli che trattavano le granaglie avevano in bocca un filo di fieno. 

Poi, pian piano, si spostavano sull’angolo della piazza che era chiamato al cantù del mediatur, e quando si dava appuntamento a qualcuno lo si dava in quel luogo. Quando pioveva o nevicava ognuno aveva la sua osteria di ritrovo per fare mercato: Piana Prandi, Nando Mosca, Dal Trani, Al Gallo da Silvio Carneal, La Buso e le Due Chiavi dai Fratelli Mosca.

Piero Viviani