Quando passeggiamo per le nostre campagne, siamo abituati a vedere edicole con immagini sacre nei pressi dei fossi. Ritraggono, perlopiù, la Madonna col Bambino: un’immagine femminile e che rimanda al “dare la vita”.

Le “santelle” erano adatte come punti d’arrivo delle rogazioni, le processioni che volevano propiziare un buon raccolto attraverso la benedizione delle acque e della terra. Insomma, erano un’espressione della nostrana religiosità contadina, che univa il contatto con la natura alla dottrina cristiana. Luoghi benedetti… a patto di non scivolare dentro la fonte o il fosso.

L’ambiguità fra sacralità e pericolo, tipica delle acque, è fortemente sentita nel folklore bresciano. Ne ha parlato Giovanni Raza, nel suo “Madóra che póra!

Storie e leggende della Valle Trompia” (2015).

Dal paese di S. Giovanni di Polaveno, viene un’inquietante credenza compresa nella raccolta. Nella Valle Trobiolo, nel territorio (appunto) di Polaveno, si trovano sorgenti: quella detta “Madonnina” alimenta l’acquedotto comunale – afferma Raza.

La valle era un tempo percorsa da una strada impiegata per collegare i paesi ai mulini. Fino alla fine degli anni ’60, un antico ponte in pietra (non più esistente) permetteva di attraversare il torrente Gombiera per raggiungere la strada principale di Polaveno. Era detto “Ponte del lupo”, per via di branchi di questo animale che pareva infestassero la zona. Chi percorreva la strada di notte, vicino al ruscello, udiva rumori simili a quelli fatti dalle lavandaie nello sciacquare i panni. Si trattava dell’acqua che correva sulle pietre, naturalmente; ma questa ovvia spiegazione non impedì la creazione di dicerie su spiriti maligni che prendevano la forma di donne intente a fare il bucato. 

Perciò, il ponte si guadagnò anche il nome di “Ponte delle streghe”. Per scongiurare la paura di tali esseri, si dedicò alla Madonna la vicina sorgente, come abbiam detto. Il nome venerato avrebbe recato conforto ai viandanti notturni.

Raza trae occasione da questa storia per parlare del culto celtico delle acque, considerate punti di passaggio per altri mondi: meglio ancora se si trattava di quelle di un pozzo o di sorgenti che scaturivano direttamente dalle profondità della terra. Motivi di paura, ma anche di rispetto, vista la preziosità di quel “dono”. Sul fondo dei pozzi bresciani, qualcuno credeva d’intravedere “la ècia Cuchìna”. Di pericolose streghe lavandaie si favoleggiava anche nel vercellese, o in Istria… Ma, per restare fra noi, le acque più famose sono probabilmente quelle di Sirmione: maleodoranti per il contenuto di zolfo, ma curative. 

Le acque sulfuree meritarono, dal VI sec. a.C. al IV sec. d.C., addirittura una dea a loro associata: Mefite. Dal suo nome, derivano l’aggettivo “mefitico” (= “di odore insopportabile”) e il nome scientifico delle moffetta, o puzzola (“Mephitis mephitis”). Come suo centro di culto, era particolarmente famoso quello nella Valle d’Ansanto, in Campania. 

Tacito menziona però, nelle sue “Historiae” (III, 33), un santuario di Mefite a Cremona, ergo poco lontano dalle nostre zone. Dea temuta, in quanto legata a vapori tossici, alla discesa nel sottosuolo e nella morte, non era però trascurabile: sia per la soggezione dovuta al dispiegarsi di un grande potere naturale, sia per l’uso benefico che delle acque sulfuree si poteva fare. Così come i pozzi e le sorgenti, Mefite era un “punto di passaggio” tra la vita e la morte. 

La differenza tra queste ultime (oggi come allora) viene data dall’uso che l’uomo fa di lei – e dell’ambiente in generale.

Erica Gazzoldi