Tra i graditi lettori del nostro giornale c’è anche qualcuno che diventa parte attiva del nostro lavoro e prende l’ispirazione da alcuni articoli per poi arricchirne con alcune conoscenze personali il contenuto. 

E’ il caso della professoressa Raffaella Barbieri di Orzinuovi, che ci ha fatto pervenire una lettera di manifesta compartecipazione alle emozioni di un articolo a mia firma del mese di aprile in ricordo della generazione di anziani scomparsi a causa del Covid in paese. A seguito di alcuni miei riferimenti alla vita degli anni ‘50/60 ad Orzinuovi, la professoressa Barbieri, innamorata del proprio paese e dei “bei tempi che furono”, ci ha voluto regalare altri ricordi preziosi e nostalgici che parecchi anziani hanno lasciato:

“Devo un apprezzamento a Silvia Pasolini per aver visualizzato il tempo che fu in un articolo del mese di aprile e che io ottantenne ho vissuto. Rispecchia con acume un passato di povertà, ma di serenità. 

Nomina la balera di Bellometti, la balera dei distinguo e dei sicumera, ma non quella della trattoria Primavera, dove si svolgevano le grandi ballate. Ballate delle nostre mondine che, tornate dopo un mese dalle risaie, si permettevano il lusso del-l’acquisto di un paio di zoccoli con tacco a spillo e con la gonna a ruota intera e felici e gioiose si trastullavano in tango, criminal tango peccaminoso e valzer.  

Bei tempi quando Orzinuovi aveva un punto di riferimento! I maschi miravano all’officina di Bellometti dopo essere stati sgrassati come apprendisti dalle piccole officine dei fratelli Caffi, Seniga, Calzavacca, per diventare poi operai specializzati.

Bei tempi quando la piazza brulicava di gente nostrana e dei paesi limitrofi che spesso con la scusa di una visita all’allora ospedale “Tri-bandi Pavoni” si concedevano due passi sotto i portici per vedere le vetrine delle “Turote” e delle “Mighete” o la “Maglia Callegari” per gli accessori dei matrimoni o per cerimonie particolari. C’erano pure gli Scalvini, i Tognali, i Pennacchio sorridenti e invitanti a guardare e provare i loro articoli. Poi la tabaccheria di Peppino Franguelli che alle 5 del mattino era pronto a servire le Alfa e le Nazionali agli operai in attesa del pullman per Brescia. 

E poi come dimenticare la panca della Arini, la “Veneta”, la fruttivendola dei portici, dove tutti si fermavano per una sosta, cogliendo l’occasione per gustare le caldarroste? Qualche passo più avanti c’era anche la profumata bottega di Luciano Cazzuli, con le vecchie scansie di legno e i barattoli pieni di spezie e caffè che gentilmente Luciano ti macinava al momento, facendoti adorare l’aroma con il suo fare sempre gentile e riservato.

Che dire anche del bar Solzi e dall’altro lato dei portici della gelateria Pochi, dove le signore si intrattenevano dopo la messa della domenica ad assaporare una tazza di cioccolata calda?

Una vita di cortesie, forse false, ma piacevoli e ben mascherate. Ora non c’è più niente. 

Mancano le processioni di buon mattino per implorare la pioggia, le vetrine addobbate per le processioni delle feste comandate e i bambini vestiti da paggetti. Non ci sono più i bimbi che giocano fino a tarda sera nelle contrade “a ciancol o a ciche” oppure i giupì che rallegravano grandi e piccini.

Ora ci si vergogna della semplicità e della modestia, che sono invece segno di nobiltà culturale e spirituale. Questo è il mondo dell’apparenza. Appariscenti nel mostrare le parti meno nobili del corpo come i pavoni con la ruota. Tutti cantanti, registi, attori scrittori senza che più nessuno legga. 

Tutti con l’inglese sulla punta della lingua, senza conoscere prima l’italiano. E ora, dulcis in fundo, per diversi motivi, se ne è andata anche la fiera di San Bartolomeo, cara all’allora dottor Severini, al professor Tolasi e al geometra Zucchi. 

La fiera allora era tutt’altra cosa. Ricordo il suono dei campanacci al collo delle vacche portate in piazza alle 3 del mattino per far bella mostra della loro corporatura. E chi non ricorda la via del Pelapoi, in onore delle donne che per la festività spennavano i polli per festeggiare i parenti che arrivavano dal pavese, dove le nostre mondine si erano accasate. Bei tempi quando la morale, i sacrifici e gli esempi formavano l’uomo. Grazie a Silvia Pasolini e a Paese mio per aver donato a noi, ormai demodè ed attempati, ma lucidi ancora e imperativi, in attesa di un viaggio senza ritorno, il motivo di bei ricordi e di un felice sorriso”.

sp

Foto: Archivio di Francesco Amico